ALZHEIMER, UNA PIAGA IN AUMENTO. ECCO PERCHE’…

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È la parola chiave che apre la porta sulla scala inesorabile verso l’inferno. Alzheimer. Il carnefice, nel thriller dai mille volti. Più di una malattia, è un “lutto vivente”. Uccide la persona, cancella l’identità, prosciuga la mente e l’anima, lascia soltanto le fattezze dell’essere umano che è stato e non è più.

Vivergli accanto è un funerale ininterrotto. Soffoca lo spirito vitale anche di chi gli sta vicino, giorno per giorno, sette giorni su sette. Lo descrive così Claudia Martucci, presidente e fondatrice dell’Associazione Amici Alzheimer, la prima di volontari senza scopo di lucro, per offrire un supporto ai malati e ai familiari che li assistono. Sono quest’ultimi, infatti, le vittime dimenticate in questa tragedia plurima, dallo Stato e dalla società. Soli e disorientati, di fronte alla burocrazia e ai costi economici ed esistenziali. Per qualcuno insopportabili. Non si contano le morti di malati del terribile morbo per mano di parenti stretti, in maggioranza i coniugi, anziani; qualcuno tenta poi il suicidio, qualcuno ci riesce. Come Paolo Zanghì, 78 anni. Un anno fa, ha ucciso la moglie di 80, con una roncola al ritorno dall’ennesimo ricovero in ospedale e poi si è impiccato. Non è l’unica storia degenerata in delitto.

“È una malattia che colpisce la famiglia”, dice Claudia. Nel 2008, il padre, Luigi, si è ritrovato dietro quella porta che segna il confine tra chi vive e chi sembra. Aveva soltanto 56 anni. “Era un uomo ancora giovane, forte”, racconta. “All’inizio sorridevamo, quando dimenticava le chiavi di casa o il cellulare, il nome di persone amiche. Poi, come tutti i familiari di persone colpite da demenza, anche noi siamo passati attraverso il fuoco”. È un incendio, che brucia tutta la famiglia, l’Alzheimer. Incenerisce le certezze, di sentimenti, ricordi, abitudini, manda in fumo le vite.

“All’inizio, mio padre era consapevole di quanto stava avvenendo. Ci diceva: ‘Sento che il mio cervello è presente al 50 percento’. E questa consapevolezza, che un pezzo di sé lo stesse abbandonando ogni giorno, lo rendeva irascibile, aggressivo”, continua Martucci. Non sapevano che fare, a chi rivolgersi, lei e la madre. Cominciavano a sviluppare i primi sintomi di esaurimento. Da qui, la decisione di farlo ricoverare in una struttura specializzata, nel 2012, e costituire l’Associazione, l’anno dopo.

Per molti, l’assistenza domestica non è una scelta. I costi per i ricoveri specialistici sono elevatissimi. È lo schiaffo allo Stato sociale. Da uno studio del Censis risulta che la famiglia è la principale e la più efficiente forma di assistenza domiciliare. In oltre l’80 percento dei casi, l’unica. Perlopiù, sono i figli, anzi, le figlie. Si chiamano Caregivers. In italiano è tradotto con “assistenti” o “badanti”. Ma, il “dare cura” è molto di più e di più complesso. Per i familiari, assistere significa donare la propria vita, mettere a servizio esclusivo il proprio tempo, la propria energia, spesso senza tenere nulla per sé, rinunciando ad altri affetti, alle relazioni sociali, anche al lavoro.

Chi si prende cura di un malato di Alzheimer, quasi sempre si ammala a propria volta. Dai dati del Censis, in quasi il 90 percento dei casi sviluppa una immunodepressione e stanchezza cronica, circa il 55 percento soffre di insonnia e di ansia, oltre il 43 percento è depresso, più di un terzo subisce alterazioni metaboliche e ormonali, con variazioni patologiche di peso.

In uno Stato che taglia servizi sanitari perfino indispensabili ai malati diretti, l’assistenza agli assistenti è un’utopia. È lasciata all’iniziativa di privati volenterosi, come Claudia. Con la collaborazione di professionisti volontari, ha organizzato un centro di aiuto, per gestire quello che viene definito il Caregiver Burden, l’“effetto d’urto”, fisico, psicologico, relazionale-sociale e pratico-organizzativo, su chi assiste malati di Alzheimer. Il costo “intangibile” della tragedia. L’emergenza sommersa dei malati indiretti, ignorati dal Servizio sanitario nazionale.

“Sono tutti casi gravi, i “bruciati dentro” dal lutto vivente che devono elaborare”, dichiara Mauro Lo Castro, tra gli psicologi della “rete che salva” dell’Associazione creata da Claudia Martucci. Il 15 ottobre, inizia un corso di “Burn out” a Ostia. “In famiglia, viene scelto il Caregiver, solitamente una donna. L’Alzheimer è incurabile. Più il male progredisce, più la persona attraversa le diverse fasi dell’elaborazione del lutto, dell’accettazione e del riconoscimento”, spiega Lo Castro. Si passa dalla negazione, il rifiuto di credere che si tratti di “quel” male, alla rabbia, per la frustrazione che nasce dall’impotenza, che si riversa anche sul malato stesso. Segue il conflitto con i medici, quindi la depressione. Anche perché “spesso il Caregiver subisce mobbing da parte di altri familiari, si ribella rispetto alla sua condizione di “bruciato vivo” e viene isolato”.

Nei gruppi di aiuto, queste persone ritrovano la voglia e il gusto di vivere, l’amore di sé, imparando a comprendere i comportamenti dei malati di cui si prendono cura e a gestirli. “I malati di Alzheimer non riconoscono gli stimoli fisiologici, come la fame, la sete, i bisogni primari, e questo li disorienta, li rende aggressivi. Hanno paura dell’acqua. Non controllano le emozioni”.

Come dovrebbe intervenire lo Stato, per Lo Castro? “Innanzitutto, attivando contesti di informazione e formazione per gli assistenti dei malati. Mettere a punto servizi che facilitino la vita degli uni e degli altri; ad esempio, taxi convenzionati a prezzi modici prefissati, come fa l’Associazione Amici Alzheimer su iniziativa privata. Fornire supporto psicologico professionale continuo gratuito”.

L’Alzheimer, infatti, è un problema sociale. “Il concetto di salute non appartiene alla sfera individuale, ma pubblica, riguarda l’intera società”, afferma lo psicologo. I numeri sono allarmanti e in aumento. Nel 2015, in Italia, le nuove diagnosi sono già 270mila Sono 46milioni gli abitanti del pianeta che ne sono affetti, circa un milione e 300mila gli italiani. Ogni 3 secondi, una persona si ammala. E soltanto nel 27 percento dei casi l’origine è genetica. La causa principale è tossicologica, da inquinamento ambientale, alimentare, da stress. La prevenzione comincia qui.