MESSINA DENARO, CACCIA ALL’ULTIMO PADRINO

Un mistero, almeno quello, è stato risolto: Matteo Messina Denaro è davvero il capo di Cosa Nostra. L’ultimo rampollo della generazione sanguinaria dei Riina, dei Bagarella, dei Brusca e dei Provenzano. Uomini, oggi tutti fortunatamente dietro le sbarre, che hanno segnato a suon di bombe, spari e morti la storia italiana a cavallo fra le fine degli anni 70 e l’inizio dei 90. A mettere il seme del dubbio sul ruolo effettivo giocato dal superboss del Trapanese nella gerarchia della Mafia sicilia era stato proprio “Totò ‘u curto”. Due anni fa, intercettato mentre si confidava con un compagno di prigionia durante l’ora d’aria, dopo essersi vantato di averlo fatto crescere tra sue fila Riina si rammaricava del fatto che, nonostante fosse “l’unico ragazzo” in grado di ricostruire la Cupola, Messina Denaro avesse tradito le aspettative. Tanto che per quanto ne sapeva poteva trovarsi “pure all’estero”.

Parole su cui gli investigatori avevano manifestato più d’una perplessità, considerata la letale furbizia di Riina e la sua capacità di mischiare le carte. E infatti l’indagine “Ermes”, che ieri ha portato all’arresto di 11 pretoriani del nuovo Padrino, prova esattamente l’opposto. “Oggi possiamo dimostrare come Matteo Messina Denaro sia a capo della mafia trapanese – ha spiegato il capo del Servizio centrale operativo, Renato Cortese – Non si muove foglia senza il suo consenso, sceglie e da incarico ai capi. Ha la piena gestione del territorio è in piena attività su Trapani”. Già, Trapani, la nuova Capitale di Cosa Nostra, il cuore delle sue attività illecite. Più di Palermo dove la Piovra si è imborghesita, ha raggiunto i piani alti ed è stata in grado di nascondere dietro i grandi affari il suo volto feroce. E’ questo il regno del super latitante, uno dei criminali più ricercati al mondo, diventato re dopo l’arresto di Bernardo Provenzano.

La sua ascesa inizia a Castelvetrano, il paesino nel quale è nato il 26 aprile 1962. A insegnargli “il mestiere” è il padre, Francesco, leader della cosca locale, con cui Matteo svolge, almeno ufficialmente, la professione di fattore nella tenuta dei D’Alì Staiti, proprietari della Banca Sicula e delle saline di Trapani e Marsala. A 27 anni viene denunciato per associazione mafiosa e due anni dopo, nel 1991, si rende responsabile dell’omicidio di Nicola Consales, proprietario di un albergo di Triscina presso cui lavorava l’amante di Messina Denaro con cui si era lamentato del giro di “mafiosetti” che aveva sempre tra i piedi. Nel 1992 viene inserito nel gruppo di fuoco spedito a Roma per pedinare Maurizio Costanzo e per far fuori il giudice Giovanni Falcone e il ministro della Giustizia Claudio Martelli.

Dopo l’arresto di Riina “u Siccu” – “il magro”, questo il soprannome del boss trapanese – si mette agli ordini di Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e dei fratelli Graviano partecipando attivamente all’organizzazione della stagione delle bombe che sconvolgono Roma, Firenze e Milano e provocano 10 morti e 106 feriti. Nello stesso anno pianifica assieme ad altri il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino, strangolato e sciolto nell’acido a 15 anni dopo 779 giorni di prigionia. L’ultima apparizione documentata è del 1993 a Forte dei Marmi, dove si trova in vacanza assieme ai Graviano. Ha 31 anni e già vanta un curriculum da macellaio provetto: associazione mafiosa, strage, devastazione, omicidio, detenzione e porto di materiale esplosivo e altri reati minori. Delitti puntualmente inseriti nel mandato di cattura emesso nei suoi confronti che, però, non lo raggiunge mai. Perché Messina Denaro sparisce, come se non fosse mai esistito.

Del resto la latitanza ce l’ha nel sangue. Suo padre Francesco è morto da uomo libero nel 1998 dopo essersi nascosto per tutta una vita. Ed è questo che “u Siccu” fa oggi: si eclissa, comunica solo se serve e fa pervenire i suoi messaggi attraverso un network di fedelissimi. Ricorre quasi sempre ai “pizzini” ma non disdegna le nuove tecnologie, soprattutto se la questione a risolvere è urgente. Tempo fa la sorella contattò via Skype per chiedergli se il magnate Giuseppe Grigoli andasse ucciso e lui negò il consenso all’omicidio. Notizie frammentarie di uno spettro che aleggia sulla Sicilia ma che da ieri è un po’ più visibile. “La latitanza di Matteo Messina Denaro ora è molto più difficile”, ha commentato soddisfatta Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia. Un deciso passo in avanti nella lotta a un cancro che divora il Sud da troppi anni. E annega nel sangue ogni speranza di legalità e giustizia.