Un pane più grande del sole per un giorno senza fame

Lo scorso Primo Maggio, dedicato alla festa dei lavoratori, ha avuto un sapore diverso; non solo e non tanto perché erano tutti ancora a casa, per gli scampoli della fase 1 della legislazione di emergenza emanata in questi due mesi, ma perché le persone stanno cominciando ad avere consapevolezza che è terminata un’epoca. “Non torneremo alla normalità” è il titolo di un editoriale di In Terris, che risponde saggiamente alle domande di speranza di quando finirà questo isolamento, ma ha prontamente aggiunto “perché la normalità era il problema”. Questa lucidissima intuizione è la sintesi del pensiero che si è venuto formando in questi due mesi: le persone hanno scoperto le famiglie, i momenti di riflessione, gli approfondimenti, la propria interiorità ed intimità culturale, sui social sono fioccati gli inviti a riflettere, a godere questi momenti di isolamento per dedicarsi a se stessi ed ai propri affetti intimi, sono girate innumerevoli lodi all’Italia e agli italiani, fino ad ieri bersaglio di strali ed invettive, l’Italia si è riscoperta unita. Se sono emerse critiche alla gestione dirigente, rea di confusione normativa e di linguaggio improprio, la grande maggioranza del Paese ha assecondato il momento di emergenza e, con senso di responsabilità invidiabile, ha consentito di cogliere gli effetti positivi della riduzione nella diffusione del contagio.

Questo è bene dirlo con chiarezza: l’Italia e gli italiani, nei momenti difficili, sanno rispondere e rimanere uniti per il bene comune ad onta dei luoghi comuni che li denigrano; rimangono, invece, le divisioni politiche e la distanza siderale che oramai separa tutti noi dal manovratore. Ma questo è altro affare.

Invece delle solite celebrazioni ridondanti e invadenti, quest’anno hanno girato sui social, in assenza della possibilità di riunirsi in piazza col concertone, due pensieri che ritengo espressivi del momento tragico della nostra economia e della società occidentale; il primo recita: “Questo 1° maggio lo dedico a chi ha perso il lavoro, a chi non l’ha mai avuto, a chi lavora senza diritti, a chi sul lavoro ha perso la vita”. 

È davvero una riflessione di cui si sentiva il bisogno: l’importanza del lavoro, oggi più di ieri quando il lavoro era sfruttato, sposta l’attenzione non più sulla rivendicazione dei diritti dei lavoratori, che in gran parte hanno raggiunto livelli adeguati, ma sul bisogno del lavoro e sulla necessità di proteggere il lavoro inteso come esigenza insopprimibile della persona, in un momento in cui, per aggirare il peso economico derivante dal costo del lavoro, si sono soppressi diritti frutto delle lotte e delle conquiste sindacali d’altri tempi. Non è più quella la strada, posto che il “nemico” si è adeguatamente attrezzato e le esigenze sono mutate: oggi la strada è verso l’emancipazione del lavoro, verso il superamento della condizione di precariato, condizione psicologica deteriore prima ancora che economica. Se saremo in grado di spostare l’attenzione sulla professionalità del lavoratore e sulla sua consapevolezza di sé e della sua essenzialità nel ciclo produttivo, avremo il superamento del precariato a favore di una offerta qualificata che privilegia la scelta, condizione diffusa nei paesi stranieri.

Molti, costretti a casa, si sono dimostrati abili nell’uso delle tecnologie digitali per fornire nuove proposte, in sintonia con la realtà liquida che caratterizza il tempo attuale, uscendo dagli schemi precostituiti, fissi e stantii, alla ricerca di miti evanescenti, per tuffarsi nel nuovo mondo dando dimostrazione del meglio di sé, prima offuscato da obiettivi improbabili ed oggi stimolato dalla consapevolezza, dall’idea, dalla capacità di attuarla, dalla dimensione umana e dalla ricerca di risultati possibili, affrancati dal mito del successo planetario. Una dimensione umana, come è umano essere rimasti a casa.

L’altro pensiero è una lirica di Gianni Rodari, secca, asciutta, diretta ma altrettanto espressiva di un profondo anelito dell’anima: “S’io facessi il fornaio vorrei cuocere un pane così grande da sfamare tutta, tutta la gente che non ha da mangiare. Un pane più grande del sole, dorato, profumato come le viole. Un pane così verrebbero a mangiarlo dall’India e dal Chilì i poveri, i bambini, i vecchietti e gli uccellini. Sarà una data da studiare a memoria: un giorno senza fame! Il più bel giorno di tutta la storia”. Ecco il motivo per cui siamo in cammino.