Lavoro: massimo movimento, ma nessun cambiamento

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Foto di Miguel Á. Padriñán da Pixabay

Il decreto lavoro ha provocato non poche accuse e contro accuse, descritte apocalissi in atto della precarietà da parte del centrosinistra, così come immaginifiche descrizioni della bontà del decreto governativo molto oltre il proprio merito. Ma nulla di nuovo sotto il sole, se non l’amarezza nel costatare che i ritardi del lavoro italiano ed i guai fiscali, sono opera di ambedue gli schieramenti che hanno aumentato i carichi fiscali più del 15% in più negli ultimi 2 decenni soprattutto ai danni di lavoratori e pensionati. Si sta ripetendo lo scenario ormai consueto: il terreno del lavoro non come luogo per organizzare stabili e lungimiranti politiche favorevoli allo sviluppo del lavoro attraverso la collaborazione degli attori sociali e di ogni istituzione possa assecondarne la modernizzazione come scuola, università, agenzie formative.

Insomma buona parte dell’opposizione si riprepara con arnesi consumati e fuori tempo all’assalto della maggioranza e questa risponde da par suo accentando la sfida nello stesso terreno. Ed invece le opposizioni farebbero bene a pungolare il governo ad assumere decisioni che conducano alla modernità anziché replicare i cliché inservibili di altre epoche che se applicate renderebbero ancora più grave la situazione. Ma purtroppo gran parte di queste realtà politiche e sociali hanno ancora una volta preso spunto dalla riorganizzazione del contratto a termine per rilanciare una narrazione che teorizza lo straripamento della precarietà, che comunque resta una piaga sociale, ma da affrontare guardando ai fondamentali della buona economia e cambiando l’organizzazione del lavoro per migliorare qualità e quantità delle produzioni. Va detto con onestà che la somma totale dei lavoratori dipendenti di ogni settore ci dice tutt’altro. I lavoratori a tempo indeterminato sono molto più dell’80% dei dipendenti; il resto sono temporanei. Dunque dati statistici da tenere sotto osservazione, ma non allarmanti.

Sono indici costanti nell’ultimo quarto di secolo e vicini ai dati degli altri paesi industrializzati più importanti europei come Francia e Germania. Per maggior chiarezza, coloro che diffondono l’allarme, fanno riferimento esclusivamente ai dati circoscritti a prime assunzioni che come si sa in gran parte sono temporanei e poi si trasformano in tempo indeterminato con dati certamente fisiologici riguardo agli andamenti del mercato del lavoro. Va pure considerato che l’83% dei contratti a tempo determinato della media italiana, contengono i numeri del nord Italia, più alti a ragione di una economia di industria, servizi, e settore primario più avanzati e produttivi di quelli del meridione della penisola sensibilmente più deboli. Ed intanto, con una opposizione che insegue ancora il passato, ha facile gioco la maggioranza a dare una occhiatatina qui e lì, al massimo riproducendo la dinamica più diffusa di questi tempi: massimo movimento ma nessun spostamento.