Manovra 2024: non un “ritorno all’austerità”, ma il massimo che si poteva fare

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Il commento più avventato sulla manovra, illustrata in conferenza stampa dalla premier e dal ministro Giorgetti, è quello di alcuni soliti ambienti, secondo i quali vi è un “ritorno all’austerità”. Come se potesse spendere e spandere un Paese “osservato speciale” per il deficit e il debito pubblico, sottoposto all’esame attento di Bruxelles, delle agenzie di rating e al giudizio dei mercati che – finita la tutela ultrattiva nel 2023 del governo Draghi – si è trasformato in una vera e propria spada di Damocle calata sugli interessi  passivi dell’ammontare del debito pregresso e soprattutto grave ipoteca sul livello di quelli da garantire a chi acquisterà in nuovo fabbisogno di 480 miliardi di euro. Una manovra da 24 miliardi è il massimo che “passa il convento”. Magari, le criticità riguardano il modo con cui si spendono quelle risorse modeste.

Cominciamo dal fisco. Per favore non si scomodi la riforma fiscale, perché le misure annunciate non rimuovono gli squilibri del sistema, ma si limitano ad aumentare il prelievo a scapito di coloro che pagano le tasse e a favore di chi usufruisce della maggior quota del gettito. Nel bilancio complessivo le imposte che pesano di più sull’evasione complessiva sono: l’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, e l’IVA, l’imposta sul valore aggiunto. L’IRPEF è l’imposta più evasa in Italia, soprattutto quella che dovrebbe essere pagata da lavoratori autonomi e imprese. Nel 2020 lo stato ha stimato una perdita di gettito pari a 28,3 miliardi di euro, ossia il 69,7 per cento dell’IRPEF dovuta dagli autonomi e dalle imprese. Anche l’IVA è molto evasa in Italia, nel 2020 sono mancati 25 miliardi, circa un quinto di tutta l’imposta dovuta allo Stato e quasi un terzo di tutta l’IVA evasa a livello europeo. In questa situazione il solo soggetto che prende ad occhi chiusi le denunce dei redditi dei contribuenti è quello Stato che dovrebbe contrastare l’evasione. Come ha certificato il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini: “Più dell’80% dell’evasione è per omesse dichiarazioni o infedeli”, mentre la parte restante è “evasione da versamento”, cioè di chi è trasparente, presenta la dichiarazione ma poi non ha le risorse per fare i versamenti a tempo debito e – aggiungiamo noi – resta in attesa della ‘rottamazione delle cartelle’.

Come denuncia instancabilmente Alberto Brambilla nei Rapporti di Itinerari previdenziali la fotografia del Paese sta tutta in queste scarne cifre: il 12,99% della popolazione paga il 59,95%; mentre il restante 87% paga il 40%; oppure potremmo dire che il 41,95% paga il 91,81% mentre il 44,53% dei contribuenti paga solo l’1,92% dell’intera IRPEF. È più che evidente che questa non può essere la fotografia di uno tra gli 8 Paesi più sviluppati, tanto più se consideriamo i consumi e gli stili di vita. Eppure, da alcuni anni a questa parte i Governi hanno definito per legge la “soglia del benessere” al di sopra di un reddito lordo di 35mila euro (5 milioni di contribuenti che pagano il 56% dell’Irpef e che sono esclusi dai benefici che contribuiscono a finanziare. Il governo Draghi aveva presentato una ristrutturazione delle aliquote che teneva conto di questo iniquo sovraccarico. Ma il governo Meloni ha stabilito diversamente: all’accorpamento delle prime due aliquote Irpef, che sono il cuore della manovra, saranno destinati 15 miliardi, di cui più di 4 per la riforma dell’Irpef. Il taglio sarà del 6% per chi ha un reddito fino a 35mila euro e del 7% per chi non supera i 25mila euro l’anno. Mentre le nuove aliquote saranno del 23% fino ai 28 mila euro, del 35% tra i 28 e i 50mila, e del 43% sopra i 50mila. In più è stata ampliata fino agli 8.500 euro l’esenzione dalle tasse, chiamata no tax area, per i redditi da lavoro dipendente.

Insomma – secondo Itinerari previdenziali – sulla base delle spese e della ricchezza, potremmo definire gli italiani “una società di poveri benestanti”. Una riprova (tra le tante) è il versamento pro capite dell’IVA che al Sud è di circa 600 euro l’anno contro una media di 2.900 tra Nord e Centro; è evidente che al Sud i 23 milioni di individui non vivono con consumi di quasi 5 volte inferiori a quelli del Centronord; ma per l’Istat sono poveri. L’Istat ha reso noto l’andamento dell’economia chiamata pudicamente “non osservata”: nel 2021 il valore dell’economia non osservata raggiungeva 192 miliardi di euro, di cui 174mila attinenti al ‘’sommerso’’ e 18 miliardi alle attività illegali. Rispetto al 2020, il valore dell’economia non osservata cresce di 17,4 miliardi, ma la sua incidenza sul Pil resta invariata (10,5%). Le unità di lavoro irregolari sono 2 milioni 990mila, con un aumento di circa 73mila unità rispetto al 2020. Poteva, poi, il governo non avere un occhio di riguardo per il suo elettorato? Lo ha spiegato direttamente Giorgia Meloni, quasi scusandosi per “il poco ma volentieri” a proposito della flat tax: “È iniziato – ha detto – un lavoro importante lo scorso anno con un aumento dell’importo per tassa piatta al 15% per i lavoratori autonomi: viene confermata questa misura, e prorogata per altri 3 anni una norma che considero molto importante che è l’indennità straordinaria di continuità, una sorta di cassa integrazione anche per i lavoratori autonomi. Viene anche ampliato il reddito per usufruire di questo ammortizzatore sociale. Inoltre, per la prima volta quest’anno gli autonomi non dovranno pagare l’anticipo Irpef a novembre ma rateizzarlo in 5 rate da gennaio a giugno”.

Evidentemente c’è tempo secondo il governo per  garantire il rispetto del principio di progressività nella prospettiva del cambiamento del sistema verso un’unica aliquota d’imposta, attraverso il riordino delle deduzioni dalla base imponibile, degli scaglioni di reddito, delle aliquote di imposta e delle detrazioni dall’imposta lorda; poi vi l’altro “colpo di cannone”: sono 10 miliardi per la decontribuzione, la misura più significativa riguarda le madri: quelle con due figli o più, fino a dieci anni, non pagheranno i contributi a carico del lavoratore (9%) perché saranno interamente a carico dello Stato. La misura è interessante per le madri che percepiscono un reddito pari o superiore a 35mila euro lordi che sono escluse dalla decontribuzione ordinaria, mentre per le altre al di sotto di questo limite, l’incremento è solo del 2%. Inoltre la norma è prevista e finanziata solo per il 2024. Pertanto per mettere in cantiere un secondo figlio le donne devono fidarsi del governo per i prossimi dieci anni. Poi, è prevista una spesa 3,5 miliardi la riduzione dello scalone che dovrebbe riguardare l’anticipo del pensionamento e l’introduzione di altre quote. Se è così, sono risorse sprecate soprattutto quando alla sanità vengono riservati solo 3 miliardi e rotti sulla sanità allo scopo di ridurre le liste di attesa. Un mistero per quanto riguarda le misure che andranno a sostituire l’ape sociale e opzione donna. Demagogico l’intervento sulle pensioni minime in parallelo con gli interventi sul fisco. Verrà pure un giorno in cui, fuor di retorica, si confronteranno tre insiemi: la struttura dei contribuenti al fisco, l’evasione fiscale e la soglia della povertà.