“Perché l'Occidente volle la fine di Gheddafi”

Il 20 ottobre 2011 con un colpo di pistola alla testa veniva ucciso Muhammar Gheddafi, per oltre 40 anni signore incontrastato della Libia e figura chiave (sia pur controversa) nello scacchiere del Mediterraneo. Per chiudere quella stagione l'occidente si mosse in fretta e furia, facendo leva sull'emotività scatenata dalle sollevazioni popolari e dalla grande illusione delle primavere arabe. A 6 anni dall'attacco militare che portò al rovesciamento del “Colonnello” la Libia è un Paese diviso, socialmente regredito, con alcune zone ancora sotto il controllo dei gruppi jihadistiTripoli Tobruk, il generale Khalifa Haftar e il premier Fayez al Serraj, l'Isis e le milizie di Misurata. Senza dimenticare la massa umana che dal cuore del continente africano si muove verso il mare in cerca di nuove terre, trasformandosi in una fonte inesauribile di denaro per i trafficanti. Un caos totale su cui abbiamo fatto il punto con Paolo Sensini, saggista, storico e analista di geopolitica, autore, fra gli altri, del libro “Libia. Da colonia italiana a colonia globale” (Jaca Book, Milano 2017).

Possiamo dire che l'intervento militare del 2011 si è risolto in un fallimento?
“Io avrei dei dubbi a definirlo un vero e proprio fallimento. Chi è intervenuto con quelle modalità conosceva perfettamente la situazione della Libia, un contesto tribale con gruppi sociali eterogenei nel quale Gheddafi non rivestiva il ruolo di un vero e proprio dittatore ma piuttosto di un primus inter pares che assicurava equilibrio. Quando lo si è tolto di mezzo la situazione è esplosa”.

L'Occidente era già passato per l'esperienza irachena, dove l'abbattimento del regime di Saddam aveva generato la situazione di caos cui tuttora stiamo assistendo. In Libia non si sarebbe dovuto agire diversamente?
“In Iraq si agì scientemente con un'operazione basata su presupposti inesistenti, cioè le fantomatiche armi di distruzioni di massa che poi non furono trovate, come venne ammesso dallo stesso Bush. Nel caso libico le ragioni dell'intervento del 2011 sono multiple. Per prima cosa possiamo parlare tranquillamente di guerra contro l'Italia, voluta dalla Francia con il sostegno americano per questioni geopolitiche. Gheddafi, poi, era stato il motore primo nell'introduzione all'interno del continente africano del Dinaro d'oro, che avrebbe progressivamente scalzato il Franco Cfa, cioè la moneta di scambio che nelle ex colonie francesi viene impiegata in circa l'80% degli affari. Gli interessi di Parigi sarebbero stati dunque pesantemente danneggiati. Poi c'era la questione legata al petrolio e il fatto che la Libia fosse il principale partner produttivo dell'Italia, grazie agli accordi di cooperazione siglati pochi anni prima. Le ragioni dell'attacco erano, dunque, varie, il risultato è stato catastrofico”.

Proprio per questo la decisione di prendere parte alla coalizione che rovesciò Gheddafi fu particolarmente sofferta per l'Italia… 
“Sofferta solo per una parte, cioè il governo Berlusconi, che cedette alle pressioni molto pesanti di Barack Obama e John Kerry, il quale venne a Roma nel venerdì di Pasqua del 2011 per convincere l'allora premier a intervenire. Un'altra parte della classe politica italiana, capeggiata dal presidente Giorgio Napolitano spingeva invece per un attacco militare, in netta controtendenza rispetto alla stessa tradizione della sinistra, solitamente pacifista. Nascondendosi dietro le solite scuse della democrazia e della pace si decise di fare la guerra”.

Possiamo tornare a essere il principale partner occidentale della Libia nonostante le azioni di disturbo francesi? 
“Ci siamo mossi con grande ritardo. Non abbiamo riconosciuto la parte di Haftar, che era l'erede del parlamento legittimamente eletto da tutti i cittadini libici e costretto a trasferirsi a Tobruk dopo il golpe islamista a Tripoli del 2014. E abbiamo, invece, accettato di riconoscere Serraj (attuale leader del consiglio presidenziale libico ndr), il quale non ha nessun riconoscimento politico e non rappresenta nessuno, non avendo nessun tipo di capacità di controllo militare del territorio. Ora stiamo cercando di recuperare terreno, incontrando Haftar, prima con Minniti a Tobruk e poi con la Pinotti a Roma. Ma è molto difficile, perché l'Italia si muove in maniera disordinata e non è in grado di imporre l'ordine in quell'area. Non siamo stati capaci di tutelare i nostri interessi e tuttora stiamo tentennando. C’è grosso modo la stessa confusione che regnava nel 2011 subito dopo l’attacco”.

Serraj, però, gode del riconoscimento dell'Onu…
“…che fa gli interessi degli stessi Paesi che hanno voluto la guerra in Libia e l'hanno ridotta in questo modo. Gli stessi che poi hanno cercato di metterci una pezza. I risultati di queste scelte sono sotto gli occhi di tutti: Serraj non ha una rappresentanza, non tutela nessuno, non può nemmeno uscire dalla fortezza in cui è confinato. E' abbastanza risibile pensare che sia l'uomo giusto per rimettere insieme i cocci in Libia”.

Quindi nonostante siano in corso colloqui per la modifica degli accordi di Skhirat del 2015 l'unità del Paese è ancora lontana…
“Lo è sul piano politico, su quello militare, invece, c'è un continuo guadagno di terreno da parte di Haftar, che è riuscito addirittura a conquistare Sabrata e a cui manca un 20% della Libia per avere una continuità territoriale. Del resto la parte che fa riferimento all'uomo forte di Tobruk è l'unica ad avere una capacità militare e una visione geopolitica ampia. Ed è quindi la sola in grado di riunire il Paese”.

E' per questo che stanno cercando di tentare Haftar con un ruolo istituzionale all'interno di un governo unitario guidato da Serraj?
“Sì. Ma anche in questo caso ci si sta muovendo troppo lentamente. Non dimentichiamo che in ballo non c'è solo la questione interna libica ma anche quella legata ai migranti che provengono da quell'area. Un business che foraggiava le tribù locali, sostenendo più di metà dell'economia di tutta la regione. Un problema nostro, visti i flussi incontrollabili che giungevano sulle nostre coste, un problema interno alla Libia e un problema legato alle milizie jihadiste che in questa situazione potevano muoversi e fare i propri interessi con delle proiezioni preoccupanti per tutta l'Europa”.

Come si risolve nel lungo periodo il problema dei flussi migratori, specie quelli provenienti dall'Africa subsahariana?
“Bisogna intervenire nei Paesi da cui provengono, nei quali, fra l'altro, non c'è nessuna guerra. Poi bisogna stabilizzare la situazione in Libia, affinché il business dei migranti non sia la principale fonte di sostentamento dei gruppi tribali”.

Le primavere arabe non hanno portato a quella transizione democratica che si sperava, anzi, spesso, hanno fatto da apripista all'estremismo islamico. Anche in questo caso non si può parlare di un semplice errore di valutazione del fenomeno da parte dell'Occidente?
“No. E' stata una strategia che ha portato alla destabilizzazione di un'area chiave per gli effetti geopolitici globali che in alcune aree, come la Siria, si è riuscita in parte a placare con la pressoché totale sconfitta dell'Isis. Ne sono stati responsabili l'Occidente e alcuni suoi alleati dell'area mediorientale. Un disegno di destabilizzazione riuscito in alcuni contesti, come quello libico, mentre in altri lo si è riuscito ad arginare a prezzo di enormi sofferenze umane e sociali”.

Eppure alcuni di questi regimi erano stati in parte sostenuti dalle potenze occidentali, perché a un certo punto si è deciso di farli saltare?
“In verità il sostegno c'è stato solo in alcuni momenti. Ad esempio l'Iraq di Saddam era stata aiutata nella guerra all'Iran dopo la rivoluzione del 1979. Nell'ottica americana di 'balance of power', volta a impedire che qualcuno avesse troppo potere in una determinata area, si sosteneva di volta in volta l'uno o l'altro. C'è poi una cosa da rimarcare: tutti i Paesi che sono stati o si è tentato di demolire erano laici e secolarizzati, a differenza degli alleati Usa nel Golfo, che sono teocrazie. Ciononostante si è deciso di destabilizzarli e rimettere in discussione tutti i confini e le aree geografiche usciti dal crollo dell'impero ottomano dopo la prima guerra mondiale”.

Bisogna però ricordare che si trattava pur sempre di regimi dispotici… 
“Sì, anche se avevano una loro legittimazione popolare. In Siria, ad esempio, ci sono state ripetutamente elezioni in cui la grande maggioranza della popolazione si è espressa a favore di Assad. Non perché le condizioni fossero perfette, ma in virtù di un ragionamento pragmatico fatto dai siriani, i quali preferivano lui ai tagliagole dell'Isis. Non dimentichiamo poi che nel marzo 2010 Napolitano si recò in viaggio di Stato a Damasco tributando ad Assad la più alta onorificenza della Repubblica italiana, definendo il suo governo un modello per il Medio Oriente per il multiculturalismo e la libertà religiosa. In Siria infatti convivevano in pace il cristianesimo, le varie declinazioni dell'islam e gruppi etnici diversi. Gheddafi stesso veniva indicato come un esempio di governance dell'Africa, anche per il benessere di quelle popolazioni. I libici avevano un reddito medio di 18 mila dollari, che per il continente africano era tantissimo. Erano situazioni molto diverse da quelle dell'Occidente, avevano un loro modus vivendi che noi abbiamo completamente distrutto. Ora sono Paesi totalmente da ricostruire, non solo da un punto di vista materiale”.