Il decreto ammazza cinema

In Francia è norma da anni che esistano delle quote riservate alle produzioni nazionali, sia in ambito musicale, con i passaggi per radio, sia in ambito televisivo con fiction o film prodotti e girati nel paese, oggi sembrerebbe che anche l’Italia voglia aggregarsi a questa abitudine.

Si mormora che tutto questo impianto voglia anticipare una futura Direttiva Ue sull’argomento ma, forse, oggi è ancora prematuro parlarne.
Quello che è certo è che un’impostazione che preveda delle quote rigide e importanti alla trasmissione di produzioni italiane sia una norma anti mercato e obsoleta che, paradossalmente, potrebbe essere dannosa per il comparto cinematografico italiano.

Inutile descrivere le quote imposte a reti pubbliche e network privati ma è molto più interessante capire cosa possa comportare un obbligo di legge simile che, ovviamente, è stato apertamente e celermente criticato da tutti gli operatori del settore come Mediaset, Sky, Discovery, La7, Viacom, Fox, Disney, De Agostini ma anche dalla stessa Rai che, in una lettera comune indirizzata direttamente al ministro della cultura, Dario Franceschini, hanno indicato che “Il provvedimento, estremamente rilevante per gli effetti che avrà all’interno del comparto audiovisivo sotto il profilo editoriale, economico e occupazionale, risulta costituire di fatto una nuova imposizione insostenibile a danno dei maggiori operatori televisivi nazionali”.

La cosa interessante, a questo punto, è sottolineare come tutte le forze politiche, in maniera trasversale, abbiano contribuito all’approvazione di questo testo e, parimenti, come tutte, senza eccezione nemmeno per le sedicenti formazioni liberali, non abbiano minimamente ragionato su come obblighi di legge sulla formazione dei palinsesti e nell’indirizzo degli investimenti possano non solo essere distorsivi per il mercato ma anche controproducenti per il settore che si vorrebbe avvantaggiare.

Poco importa che, finalmente, sparisca la “censura di Stato”, cosa che, effettivamente, avrebbe dovuto avvenire tanti anni fa ma che non va sicuramente a compensare gli effetti negativi che si vedranno se non si volesse modificare l’impostazione del decreto lasciando maggiore libertà di azione a produttori e broadcaster.

Anni fa la Free Foundation di Renato Brunetta aveva pubblicato, in un suo libro, uno spaccato della produzione cinematografica italiana sovvenzionata dallo Stato e l’immagine risultante fu quanto meno desolante: i milioni spesi non hanno mai visto, salvo pochissime eccezioni, un riscontro nelle sale che giustificasse o, almeno, permettesse di parificare il contributo ricevuto; molti lavori, addirittura, non videro mai la luce e va sottolineato che i fondi ricevuti come finanziamento non fossero capitale di rischio da parte di privati ma provenienti dalla fiscalità, dai soldi prelevati dai cittadini.

Contrariamente, esempi recentissimi dimostrano quanto inutile un intervento diretto dello Stato nella sovvenzione di opere italiane che stanno avendo un ottimo riscontro a livello mondiale. Non si tratta solo di film come “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone, che non trovò nessuno disposto a finanziarlo in Italia, ma anche le produzioni originali di Sky come Gomorra o le mini dedicate agli anni di Tangentopoli o il “The Young Pope” di Sorrentino coprodotto da Sky plc, HBO e Canal+.

Imporre quote obbligate nella formazione dei palinsesti, poi, va a creare un problema sia di riscontro del pubblico, quindi di conseguenza anche di raccolta pubblicitaria e di fatturato, sia di qualità dei contenuti da proporre. Nessuno può sapere a priori quante produzioni italiane possano avere un appeal sul pubblico e, vista la quantità di soggetti coinvolti, tra tv generaliste e tv a pagamento, è credibile che il bouquet medio che si possa andare a proporre sia di qualità medio bassa, proprio per poter sopperire agli obblighi di legge che non permettono alcuna flessibilità. Accanto a prodotti di alto livello e di sicuro appeal, che ci sono come è stato mostrato poc’anzi, sarà obbligatorio finanziare e proporre anche dei veri e propri film in per completare il palinsesto, dei programmi di medio bassa qualità, magari realizzati tramite le quote obbligate di contribuzione alla realizzazione delle opere italiane.

Non si può, ovviamente, dire che tutta l’impalcatura della legge sia da buttare. Oltre all’abolizione della censura di Stato si prevede un potenziamento dei vantaggi fiscali per chi investisse sulle produzioni cinematografiche italiane che è la via più efficiente per promuovere il settore, ben di più dei contributi che venivano erogati tramite il Fus e che, oggi, passano in capo al nuovo Fondo Cinema e Audiovisivo. Ma l’impostazione dirigista e da “riserva indiana” per la tutela degli autori italiani è sicuramente criticabile e inefficace.

L’ultimo termine, poi, è importante: perché inefficace? La risposta sta nel salto tecnologico che la Tv sta vivendo oggi, passando da palinsesti fissi all’on demanddove è il telespettatore a decidere cosa vedere e quando farlo. Se le produzioni italiane non fossero all’altezza della qualità richiesta o non avessero alcun appeal semplicemente non verrebbero guardate, vanificando, di fatto, l’intento del legislatore che, così, sarebbe di mera sovvenzione a degli autori ma non di supporto alla produzione di contenuti di alto livello e alla loro diffusione, come, invece, dovrebbe essere almeno nei desiderata dei promotori.

Un discorso a parte va fatto sui canali tematici. Se io ne avessi uno chiamato Man-Ga, specializzato nell’animazione nipponica, come in effetti si può trovare al canale 149 della piattaforma Sky, come farei a proporre una quota anche solo del 5% (non il 15% come vorrebbe la legge) in prime time di opere italiane? È una provocazione, ovvio, ma ben descrive l’assurdità di quanto si vorrebbe imporre alle emittenti che operano nel Paese.