IL PM: “LA MAFIA? UN VIRUS CHE MUTA OGNI GIORNO”

A 25 anni dalla strage di via D’Amelio, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e 5 membri della sua scorta, la mafia non è stata ancora sconfitta. Quel “fatto umano che, come tale, prima o poi dovrà finire”, come lo definì Giovanni Falcone, è passato dalla strada ai palazzi della politica e delle pubbliche amministrazioni, ha individuato nuove fonti di business e, pur non rinunciando mai alla sua vocazione violenta, ha imparato a rendersi invisibile. Una mutazione continua, che rende sempre più arduo il compito di quanti la combattono. Ce ne ha parlato Domenico Seccia, Procuratore della Repubblica di Fermo con alle spalle una lunga esperienza nella Direzione distrettuale Antimafia di Bari.

Procuratore, oggi ricorre l’anniversario della morte di Paolo Borsellino. Quanto è importante l’elemento della memoria nella lotta alla mafia, intesa come movimento non solo giudiziario ma soprattutto della società civile?
“E’ fondamentale per rinverdire il dolore di una stagione che ha contaminato le coscienze, ha comportato orrore ed è stata un punto di partenza per la rifondazione della lotta contro la mafia”.

Perché parla di rifondazione?
“Perché il fenomeno veniva combattuto anche prima, ma dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio si ebbe maggiore consapevolezza. Si capì, in particolare, che il problema non caratterizzava solo il Meridione ma aveva esportato i suoi germi in tutta la penisola italiana”.

Alla vigilia della decorrenza sono stati desecretati gli atti del duro interrogatorio cui Borsellino fu sottoposto davanti al Csm quando denunciò il rallentamento delle indagini dopo la nomina di Antonino Meli come consigliere istruttore di Palermo al posto di Falcone. Ci fu, secondo lei, la responsabilità di una parte dello Stato e della magistratura nell’isolamento dei due giudici, diventati così un più facile bersaglio?
“Credo che quanto detto da Borsellino riguardasse proprio la denuncia di questo stato di solitudine, che non si è manifestata soltanto con la devastante aggressione subita dalla mafia ma era anche espressione di quel senso di distacco, scollamento e neutralità che avvertiva nell’ambiente in cui lavorava. Sicuramente la parte peggiore di quella esperienza”

Dopo le ultime inchieste – da Mafia Capitale alle indagini sul business dell’accoglienza – sembra che il fenomeno sia ancora lungi dall’essere sradicato. Oggi è più forte o più debole rispetto a 25 anni fa?
“Il periodo storico è diverso. Oggi, come detto, il fenomeno è più esteso, interessando tutto il territorio nazionale. Non esistono solo le mafie ma anche organizzazioni paramafiose che operano in diverse zone del Paese. Episodi criminali si sono verificati nell’ambito lombardo, emiliano e soprattutto pugliese. E’ in atto un’evoluzione, nella quale al crimine organizzato violento si associa quello dei ‘colletti bianchi'”.

Il presidente del Senato, Pietro Grasso, lo scorso anno ha ricordato che “la mafia quando è silente è ancora più pericolosa”. Terminata la fase stragista e dopo gli arresti eccellenti d’inizio anni 90 secondo lei, a livello politico, non si è tornati a sottovalutare il fenomeno, illudendosi che il crimine organizzato si avviasse verso una sconfitta?
“Anche in questo caso occorre distinguere. In alcune regioni, ad esempio in Sicilia, il fenomeno ha avuto una convergenza verso il contenimento. In altri ambiti, invece, la matrice violenta costituisce una caratteristica portante. Penso alla mafia foggiana in Puglia, della quale mi sono occupato per diverso tempo e di cui si parla ancora poco. Anche in alcune zone del napoletano la violenza è ancora un elemento portante. Penso, in ogni caso, che siano stati fatti molti passi avanti. Gli strumenti di aggressione del patrimonio, in particolare, tolgono risorse ai gruppi criminali. Sarebbe importante, però, che anche l’Unione europea facesse il suo. La fattispecie dell’articolo 416 bis del codice penale (associazione mafiosa ndr) ad esempio non è ancora riconosciuta dall’Ue. Anche a livello comunitario servirebbero strumenti per contrastare il fenomeno”.

Le piace il nuovo codice Antimafia che il Parlamento sta discutendo in questo periodo?
“C’è un deciso passo avanti nel testo e sarebbe estremamente positivo che fosse approvato prima della fine della legislatura. Abbiamo la necessità di avere a disposizione strumenti moderni, perché la mafia è come un virus che si modifica giorno dopo giorno, diventando refrattario agli anticorpi”.

Sta dicendo che è quasi impossibile muoversi in anticipo rispetto alle possibili evoluzioni della mafia?
“E’ nella logica delle cose: prima di intervenire bisogna conoscere bene il fenomeno. Si può però dar luogo ad un’attività di prevenzione. E’ quello che si sta facendo ed è molto positivo. Le misure di prevenzione patrimoniale e personale, ad esempio, sono uno strumento unico del patrimonio culturale e giudiziario italiano. Permettono di intervenire a monte, sottraendo le risorse ai clan”.

Come opera oggi la mafia? 
“E’ difficile rispondere. Diciamo che si sta verificando un fenomeno particolare: la produzione delle risorse lecite attraverso il subappalto. Si è passati da un’attività diretta – il controllo del territorio – a una subappaltata. Non siamo più in presenza di un fenomeno unitario ma federato, nel quale le cosche effettuano un controllo della manovalanza con l’obiettivo di rendersi invisibili”.

Alle mafie tradizionali si sono aggiunti negli ultimi anni nuovi gruppi organizzati, spesso frutto dell’ondata migratoria. Dalle gang latinoamericane, attive al nord, ai cultisti nigeriani, passando per la mafia georgiana…
“Si tratta, per lo più, di fenomeni di gangsterismo, localizzati o localizzabili in zone ben individuate. Non le considererei mafie. Potrebbero diventarlo solo espropriando con la violenza il territorio a quanti lo hanno colonizzato da tempo”.

I collaboratori di giustizia sono stati talvolta messi in discussione, specie quando hanno fatto nomi eccellenti nelle loro deposizioni. Sono ancora un’arma decisiva? La tendenza al pentimento è in crescita o in flessione?
“E’ in flessione, perché in passato la figura del collaboratore non è stata accompagnata da un’adeguata riflessione. E’ stata estesa in maniera un po’ troppo vasta, mentre si doveva fare in modo che fosse relegata allo stretto ambito familiare. Lo stesso concetto di ‘famiglia mafiosa’ è stato probabilmente inteso in senso troppo ampio. Ciò non toglie che i pentiti abbiano avuto un ruolo importante, specie in alcuni processi, oltre che per la comprensione e la repressione della mafia. L’istituto andrebbe, però, in parte ripensato. Pensiamo al trasferimento del collaboratore, insieme alla sua famiglia, in zone diverse da quelle in cui operavano. Se non attentamente monitorato può trasformarsi in una vera e propria esportazione criminale. Dobbiamo stare molto attenti, per non pagarne le conseguenze”.