GOLPE, UN ANNO DOPO: COME È CAMBIATA LA TURCHIA

C’era una volta il Paese ponte tra ovest ed est, la porta dell’occidente verso l’islam, che guardava all’Europa come a un obiettivo. C’era il sogno di Kemal Ataturk di una Turchia moderna, laica, capace di risollevarsi dalle polveri dell’impero ottomano. Aspirazioni travolte, prima dalla miopia di un’Ue che non favorendo il processo di democratizzazione e sviluppo di Ankara ha finito con l’isolarla e, poi, dal giro di vite sulle libertà civili progressivamente inferto dal governo di Recep Tayyip Erdogan.

A un anno dal fallito golpe del 15 luglio, nel quale alcuni ufficiali delle forze armate hanno tentato di prendere il potere, il quadro politico e sociale in Turchia è profondamente cambiato: da una parte sopravvivono le istanze di modernità e di apertura al mondo, dall’altra prosegue il processo di islamizzazione di ampie fasce della popolazione. Il tutto mentre va avanti a pieno regime la stagione di purghe avviata un anno fa. A farne le spese ogni settore della società percepito come una minaccia dall’establishment di governo. Una situazione complessa, della quale abbiamo parlato con Massimo Nava, giornalista, saggista e scrittore, editorialista da Parigi per il Corriere della Sera.

Partiamo da un dato: 50 mila arresti e 150 mila epurazioni in un anno. E’ lecito parlare di svolta autoritaria in Turchia?
“Direi qualcosa di più di una svolta autoritaria. E’ evidente il tentativo, riuscito per il momento, di consolidare non solo un regime traballante ma soprattutto un modello di Stato e di società turca che è in rotta di collisione e in contraddizione con quella più moderna, più urbanizzata, più aperta sul mondo e interessata a una dimensione europea del Paese. Più che di svolta autoritaria bisogna parlare di un’altra direzione intrapresa dalla Turchia, che ha delle connotazioni di tipo religioso e nello stesso tempo delle ambizioni quasi neo-ottomaniche in un’area turbolenta in cui Erdogan si pone come un punto di riferimento importante”.

Tra le motivazioni addotte dai golpisti durante il tentato colpo di mano c’era anche quella di restaurare uno stato democratico contro la deriva autoritaria del governo. Eppure i fatti del 15 luglio l’hanno in un certo senso favorita…
“Infatti non mancano interpretazioni, per un certo verso un po’ fantasiose e bizzarre, che parlano di un auto-golpe o di un colpo di Stato ispirato per arrivare a una resa dei conti. Tuttavia la ‘Marcia per la giustizia’, che nei giorni scorsi ha attraversato tutto il Paese, dimostra che in Turchia esistono anche delle contraddizioni”.

Quali?
“La vulgata giornalistica dipinge Erdogan come ‘Il Sultano’ e niente altro. Ma esiste un’ampia fascia della popolazione turca aperta al mondo, moderna, che non è finita con il tentato golpe. Poi, però, c’è una parte del Paese che è anche la conseguenza di pesanti errori e di strategie sbagliate dell’occidente e in particolare dell’Europa. Aver sbattuto più volte la porta in faccia alla Turchia e non aver agevolato un processo di democratizzazione ha portato a una sorta di isolamento e quindi a una deriva di tipo autoritario”.

Oltre alle ricostruzioni su un possibile auto-golpe organizzato dallo stesso Erdogan c’è la versione ufficiale fornita da Ankara, che ha subito puntato il dito contro la presunta “rete gulenista” e ha paventato persino un coinvolgimento degli Stati Uniti. Dov’è la verità?
“Per ricostruire una verità attendibile bisogna partire dai risultati e chiedersi a chi abbia giovato il tentato golpe del 15 luglio. Innanzitutto all’élite economica, finanziaria e religiosa vicina a Erdogan, che ha un’idea della società e dello Stato diversa da quella del ‘Paese ponte’, aperto all’Occidente, modernizzato e avviato verso una democratizzazione e laicizzazione. Anche dentro le gerarchie delle forze armate c’è stato uno scontro molto forte tra i militari tradizionalisti, fedeli alla lezione di Ataturk, e quelli più favorevoli al regime. Senza dimenticare le gravi difficoltà della Turchia in un contesto come quello del Medio Oriente..”

Ovvero?
“Possiamo fare un paragone, azzardato, con la Germania. Sono due Paesi troppo grandi per essere incasellati e sottomessi e nello stesso tempo non lo sono abbastanza per dominare l’area di influenza e di interesse. In più la Turchia ha l’handicap di essere circondata da nazioni sostanzialmente ostili oltre ad avere enormi problemi di terrorismo e di infiltrazioni jihadiste. Senza dimenticare lo storico ‘bubbone curdo’ con cui deve confrontarsi. L’essere poi membro e gendarme della Nato in quell’area assicura un alibi di ferro a chi governa, in questo caso Erdogan, consentendogli una libertà di manovra e di strategie che altri membri dell’Alleanza Atlantica non potrebbero permettersi. Quando si è di fronte a uno scenario così complesso tutte le questioni di principio, compreso il rispetto dei diritti umani, vengono messe in secondo piano”.

Il repentino avvio delle purghe, proseguite per tutto l’anno, non fa pensare che le liste di proscrizione di Erdogan fossero pronte da tempo?
“Probabilmente sì, anche se non era immaginabile che raggiungessero queste dimensioni. Come sempre avviene in questi casi ci sono regolamenti di conti di carattere personale, operati da lobby di potere e scontri tra categorie sociali in molti casi incompatibili. Pensiamo alle epurazioni nel mondo della magistratura e delle università. Quasi mai i docenti e gli intellettuali vanno d’accordo con i militari eppure a farne le spese sono stati sia professori, sia esponenti della cultura che delle forze armate. A pagare un prezzo altissimo sono state soprattutto le donne, in particolare le attiviste e le giornaliste. Anche in questo caso si è trattato di uno scontro di tipo religioso”.

Si spieghi.
“Fino a qualche anno fa Erdogan aveva cercato d’imporsi come una sorta di faro e punto di riferimento delle primavere arabe, mostrandosi come un leader in grado di dare anche una connotazione di tipo religioso, sia pur in un sistema nel quale Stato e istituzioni confessionali dovevano avere ruoli e compiti diversi. Ma il fallimento di quella stagione storica, con la radicalizzazione di alcuni Paesi e le crisi in Siria e in Libia, ha precluso ogni velleità espansionistica e di influenza ideologica e culturale sul mondo arabo-musulmano, lasciandogli, di fatto, solo l’arma del potere interno”.

A meno di un anno dal tentato golpe il Chp ha portato con la marcia della giustizia oltre un milione e mezzo di persone in piazza a Istanbul. Erdogan risponderà organizzando manifestazioni di commemorazione della vittoria dello Stato sui congiurati. C’è il rischio concreto che la situazione politica e sociale possa sfuggire di mano? In soldoni: esiste il pericolo di una nuova Siria?
“Non credo, anche se basterebbe un altro terribile attentato o una più grave offensiva terroristica per mettere in circolo più veleni di quanti già non ce ne siano. Trovo però un fatto già importante e positivo che una marcia di queste dimensioni si sia potuta svolgere, che non sia stata repressa e che abbia rivelato quanto forte sia quella parte della società turca legata a valori di democrazia e modernità, rispetto all’oscurantismo autoritario. Erdogan da parte sua gioca la carta del nazionalismo, della difesa della patria dalle minacce interne ed esterne”.

Superata la crisi diplomatica che ha seguito l’abbattimento del Su-24 russo, Ankara e Mosca sono tornate a parlarsi. Putin ha voluto Erdogan al tavolo dei negoziati di Astana, affidandogli un ruolo da protagonista nella soluzione della crisi siriana. Quanto è pericoloso questo riavvicinamento per la Nato e per l’Ue?
“Non parlerei di pericolo ma di scenario da osservare con grande attenzione. Oggi la Russia ha colmato il vuoto lasciato dalla latitanza dell’America di Obama e dalle solite difficoltà e contraddizioni europee e forse è l’unico serio avversario del terrorismo dell’Isis e dei gruppi armati in Siria. Che poi lo faccia anche per difendere la sua storica alleanza con Damasco è quasi banale dirlo. Del resto oggi, lo abbiamo visto nell’ultimo incontro tra Donald Trump e Emmanuel Macron, nessuno si pone più il problema di spazzare via Assad. Il discorso è stato accantonato perché l’obiettivo principale resta quello di eliminare il terrorismo. In tutto ciò la Turchia, che con questi gruppi ha giocato col fuoco in funzione anti Iran e anti Assad, si è resa conto che il vaso di Pandora della jihad è talmente pericoloso che vale la pena scendere a patti anche con tradizionali avversari. Quindi non vedo pericoli in prospettiva, né tanto meno cambiamenti in quelli che sono rivalità e accordi storici”.

Quanto avvenuto nell’ultimo anno in Turchia ha rallentato il processo di adesione all’Ue. Ritiene possibile una brusca interruzione dei rapporti tra Ankara e Bruxelles?
“Nonostante la situazione attuale, interrompere i rapporti e i processi di adesione, che in ogni caso sono lunghissimi, sarebbe un errore capitale per l’Europa. Un sbaglio già commesso quando c’erano i margini per favorire uno sviluppo diverso, ormai impossibile da realizzare. Mantenere aperto il margine di dialogo non solo è utile ma è un interesse reciproco. Il fatto che la Turchia resti uno dei capisaldi della Nato non può prescindere da canali di dialogo aperti, naturalmente facendo valere ideali e principi della società europea, esattamente come si sta facendo con Putin sulle questioni della Crimea, dell’Ucraina e, più in generale, dei diritti umani”.