LA SCOMUNICA DELLA CUPOLA

Tutti noi uomini d’onore pensiamo di essere cattolici, Cosa Nostra si vuole farla risalire all’apostolo Pietro”. Così Leonardo Messina, un mafioso pentito, parlava durante un interrogatorio. In quell’occasione, il boss rivelò anche l’esistenza di una “Bibbia della mafia”, nascosta nelle campagne di Riesi, un piccolo comune in provincia di Caltanissetta. Ad una prima analisi, in effetti, sembra proprio che siano veramente poche le differenze tra un cattolico e un mafioso. Entrambi pregano. Hanno in tasca, o nel portafoglio, un santino: una Madonna Addolorata, un Cristo crocifisso, un Padre Pio, ecc. Anche i mafiosi sono religiosi. Tutti. Campani, siciliani, calabresi, boss. Per anni il confine tra credente e mafioso è stato invisibile.

La mafia, l’anti-Chiesa

La malavita organizzata, da sempre denominata “anti-Stato”, oggi si potrebbe definire anche con l’appellativo di “anti-Chiesa”. Come i monaci osservano la regola benedettina dell’“ora et labora”, così anche la vita della mafia è scandita di riti, preghiere e funzioni religiose. Un esempio chiaro è la riunione dei capi della ‘Ndragheta, che il 2 settembre di ogni anno si riuniscono presso il Santuario della Madonna dei Polsi, situata a circa 860 metri d’altezza in una vallata dell’Aspromonte. Qui, a pochi passi dal torrente Bonamico, che costeggia il paese di San Luca, i boss prendono le decisioni più importanti e stringono alleanze. Qualche pentito rimasto anonimo ha raccontato che in questo luogo sono custodite le “12 Tavole della ‘Ndrangheta”. Una sorta di “codice etico” per certi aspetti molto simile ai “dieci comandamenti” donati da Dio a Mosè sul monte Sinai. Ma i riferimenti alla tradizione cristiana non si limitano al Vecchio Testamento. Nel 1951, mentre a Viterbo si celebrava il processo della strage di Portella della Ginestra, Gaspare Pisciotta, cugino traditore del bandito Salvatore Giuliano, in aula si difendeva con queste parole: “Siamo un corpo solo: banditi, polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”. Una vera e propria religione con tanto di ministri. Infatti, tra gli uomini d’onore di spicco della malavita siciliana figura anche padre Agostino Coppola, parroco di Carini. I media lo ricordano soprattutto come il prete che sposò in gran segreto Salvatore Riina (all’epoca latitante) e Antonina Bagarella. Anche le donne svolgono un ruolo importante. Infatti, i così detti “uomini d’onore” non si confessano direttamente. A riceve l’assoluzione sono le loro compagne. Grazie ad alcune intercettazioni della Polizia di Stato, è infatti emerso che sono le mogli a recarsi in chiesa per inginocchiarsi davanti al confessionale. Quando, raramente, sono gli stessi mafiosi che si accostano al Sacramento della Riconciliazione, ricorrono a una formula standard. Il dialogo suona, pressappoco, così: “Padre, mi assolva”. “Cosa hai fatto figliolo?”. “Niente, sono innocente come Gesù Cristo”.

Una Chiesa “divisa”

I media italiani hanno sempre evidenziato come la Chiesa non sia stata “unita”, bensì
divisa sulla questione mafia. Vescovi e parroci locali, stando a quanto riportano le cronache, nella maggior parte dei casi hanno taciuto il grande male che attanaglia il Mezzogiorno. In realtà, la Chiesa mai ha taciuto sulla mafia. A dimostrarlo non sono solo le scelte dettate dalla prudenza degli ecclesiastici che hanno svolto la loro missione pastorale in Sicilia, o in Calabria. Leonardo Messina, mafioso pentito, dichiarò: “La Chiesa ha capito prima dello Stato che doveva prendere le distanze da Cosa Nostra”. Quello dei mafiosi è un uso deviato della religione che, oggi come in passato, si manifesta in processioni, rituali e preghiere che assumono una dimensione pubblica con il solo scopo di riconoscere uno status di superiorità a chi, in realtà, viola la legge in nome di un falso dio.

Il peccato di mafia

Le processioni sono atti di devozione che riguardano la sfera religiosa dell’uomo. Nel
cattolicesimo, esse costituiscono un ulteriore elemento di appartenenza e identità a quel “depositum fidei” che la Chiesa custodisce. Una fede che da oltre duemila anni si rende visibile attraverso le liturgie. Esse scandiscono i ritmi della vita della Chiesa. E, per certi aspetti, anche quelli della mafia. Anche i malavitosi vanno a messa, e come tutti i buoni cristiani anche loro si confessano. Da alcune intercettazioni del prof. Guttadauro, aiuto primario in uno degli ospedali di Palermo, e capo mafia a Brancaccio, si viene a sapere che il medico la mattina si dedicava a ricevere i mafiosi, nel pomeriggio i politici di turno, e la sera istruiva il “delfino” che avrebbe dovuto sostituirlo, invitandolo a confessarsi, ma raccomandandogli di scegliere il sacerdote giusto. Gli racconta: “Sai cosa mi è successo? Un giorno mi sono andato a confessare e il sacerdote mi ha detto che esiste il peccato di mafia. Questa cosa non l’avevo mai sentita. Quindi, prima di andarti a confessare, devi trovare il soggetto giusto”.

Il senso religioso dei mafiosi

La sociologa Alessandra Dino ha provato a spiegare le motivazioni per cui un mafioso prova un forte senso religioso. Secondo la studiosa, vi sono due livelli da prendere in considerazione: quello individuale e quello dell’organizzazione. Gaspare Mutolo, uno dei killer di Mondello, autore di oltre venti omicidi, ha dichiarato: “Noi mafiosi siamo religiosi perché siamo anche noi fatti di carne e di ossa. Lo sa cosa volevo fare da bambino? Il missionario, perché volevo aiutare la gente”. A livello organizzativo, invece, la religiosità fa si che le cosche assumano i tratti di una “comunità” nella quale identificarsi. Ad esempio, Bernardo Provenzano usava la Bibbia per comunicare. Il motivo è semplice: costituisce un punto di vista culturale a cui tutti possono attingere, e dà credibilità all’organizzazione.

Una religione strumentalizzata

Pensiamo al caso della “Candelora” di Sant’Agata, nel 2005, a Catania. I membri del clan Santapaola, salirono sul catafalco della martire, al posto del prete, con l’obiettivo di deviare il percorso della processione per farla passare sotto la casa di Francesco Mangion, della cosca appena rilasciato, affinché la protettrice di Catania potesse dare il bentornato al malavitoso. Da ciò si evince che gli inchini, così come tutte le “liturgie” a cui prendono parte i mafiosi, non sono un elemento folkloristico, ma una forma di sfoggio del potere legittimato dalla divinità.

Un’efficace strategia di comunicazione

Allo stesso tempo rappresenta una straordinaria strategia di comunicazione, efficace e diretta, che trasmette un solo messaggio: qui comandiamo noi. In realtà, la Chiesa non ha mai legittimato l’operato della mafia, ne ha mai stretto alcun tipo di patto. Alla base vi sono questioni storiche e sociali ben precise che trovano le loro radici all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando tra i cittadini e gli esponenti del clero vi era una scarsa conoscenza, nonché una grande sottovalutazione, del fenomeno mafioso. Basti pensare all’operato di mons. Ruffini, cardinale di Palermo dal 1946 al 1967. Nel maggio del 1947, commentando la strage di Portella della Ginestra, affermò: “Come vescovo non posso certo approvare le violenze da qualunque parte provengano, ma è un fatto che la reazione all’estremismo di sinistra stia assumendo proporzioni impressionanti. Del resto, si poteva ritenere inevitabile la reticenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali dei comunisti”. In altre parole: se la sono cercata. Bisognerà attendere gli anni ’80 e l’operato di don Pino Puglisi, oggi beato, per intravedere alcune crepe nel muro di omertà e silenzio innalzato da alcuni rappresentanti del clero siciliano.

Il ruolo delle donne

Alcuni pentiti hanno raccontato che mentre erano impegnati nel realizzare l’opera voluta dai padrini, le loro mogli, o compagne, erano in chiesa, inginocchiate davanti ad un altare, o al simulacro della Vergine Maria. Pregavano affinché le anime di quelle persone che venivano uccise dai propri mariti fossero accolte in paradiso. La loro morte era necessaria perché andava contro il “piano divino”. E loro, i mafiosi, che si dicono credenti, come Cristo ha perdonato i peccatori, perdonano chiunque si metta contro il volere di Dio. Li uccidono, ma pregano per le anime dei morti ammazzati, e non per le loro perché i malavitosi, con quel gesto, compiono la volontà del Signore. Un ragionamento contorto e tutt’altro che cristiano, ma ben impostato e inculcato nelle menti dei giovani che si avvicinano al mondo della mafia.

La risposta della Chiesa locale

Bisogna attendere l’alba degli anni ’80 per avere una prima denuncia pubblica del fenomeno mafioso da parte della Chiesa siciliana. A parlare è il cardinale Salvatore Pappalardo, Arcivescovo di Palermo dal 1970 al 1996. Negli anni del suo ministero pastorale, in Sicilia si consumano quelli che saranno definiti, successivamente, i “delitti eccellenti”: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ma l’evento che fa da cassa di risonanza del sentimento di disprezzo e di orrore di tanti cittadini onesti, sono i solenni funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, uccisi in un violento agguato il 3 settembre del 1982. Il giorno dopo, dal pulpito della chiesa di San Domenico, il cardinale fece impallidire i più importanti uomini politici siciliani e d’Italia, che assistevano nelle prime file alla messa funebre del prefetto Dalla Chiesa: “La mafia è un demone dell’odio, l’incarnazione stessa di Satana. Si sta sviluppando una catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché, mentre così lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti, quanto mai decise, invece, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti a colpire. Sovviene e si può applicare una nota frase della letteratura latina: Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur; mentre a Roma ci si consulta, la città di Sagunto viene espugnata. Sagunto è Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?”. Parole rimaste indelebili nelle coscienze non solo dei siciliani, ma degli italiani tutti. Queste parole, passano alla storia come l’“omelia di Sagunto”. Un intervento che, de facto, segna una grande svolta nella storia della lotta alla mafia e nei “rapporti”, se così si possono definire, della “piovra” con la Chiesa. Un lungo periodo che passa alla storia come “la Chiesa del silenzio”. Infatti, da quel momento, in Sicilia tanti giovai parroci, definiti “coraggiosi” dal Procuratore Antimafia, Pietro Grasso, “iniziarono a porsi domande sul loro ruolo in una terra di violenza, sangue e diritti negati, chiedendosi se dovevano limitarsi a curare le anime o invece impegnarsi in un’azione apostolica in difesa dei diritti dell’uomo. Sorsero, su impulso del cardinale, movimenti, missioni popolari fuori dalle parrocchie, istituti dedicati alla formazione evangelica dei credenti, dei giovani, degli emarginati”. Ma i veri trascinatori della lotta alla mafia sono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che nel 1986 riescono a far condannare i grandi capi di Cosa Nostra, tra cui Michele Greco, detto “il Papa”, come mandanti di numerose stragi. Tuttavia, Toto Riina e Bernardo Provenzano restano latitanti. I due giudici, su ordine di Riina, capo dei capi di Cosa nostra, vengono assassinati. Ma il coraggio e la tenacia dimostrata dai due magistrati, e i sempre maggiori sforzi degli inquirenti nel debellare questa piaga sociale, fanno nascere in molti strati della società una sensibilità diversa che tocca anche i vertici della Chiesa.

La scomunica

E così, nel maggio del 1993, Giovanni Paolo II alza un forte grido contro gli uomini d’onore, e lo fa pronunciando anche la parola “mafia”. Il grido di conversione di Giovanni Paolo II viene ignorato dai mafiosi. E la Chiesa entra nel mirino di Cosa Nostra. La notte tra il 27 e il 28 luglio del 1993, due bombe al tritolo vengono fatte esplodere a Roma: una davanti la basilica di San Giovanni in Laterano, l’altra nella chiesa di San Giorgio al Velabro. Un attacco mirato alla Chiesa. E questo perché le frasi di Giovanni Paolo II tolgono ogni dubbio all’ambiguità tra religione e mafia. Per ciò cosa nostra colpisce Roma: San Giovanni in Laterano è la Cattedrale della “città eterna”, li viene custodita la cattedra del Papa. Alle bombe esplose nelle basiliche romane, segue un assassinio, quello di don Giuseppe Puglisi, parroco di Brancaccio. Anche Benedetto XVI ha condannato la mafia in occasione della sua visita pastorale a Palermo, il 3 ottobre del 2010. Le parole di Ratzinger si pongono sulla stessa scia di quelle di Giovanni Paolo II e, per certi aspetti, sembrano rievocarle. “La mafia è strada di morte, incompatibile con il Vangelo”, aveva dichiarato. Di recente, Papa Francesco ha messo del tutto fine al “rapporto” tra religione cattolica e mafia pronunciando in Calabria, terra martoriata dalla ‘Ndragheta, nel giugno del 2014, una scomunica latae sententiae nei confronti di tutti quelli che si professano mafiosi. “I mafiosi sono scomunicati, la ‘ndrangheta adora il male”, ha affermato Bergoglio. Nella concezione cristiana, chiunque commette peccato può pentirsi. Probabilmente questa prospettiva e l’idea che la mafia fosse solo un’organizzazione di assassini, ha rimandato l’uso dell’arma più potente che la Chiesa abbia mai avuto. Scomunicare persone che si ritengono, a modo loro cattoliche, avrebbe sbarrato ogni porta alla conversione.

Un fenomeno umano che ha fine

C’è differenza tra mafiosi e cattolici: definirsi credenti non basta ad esserlo. È necessario vivere con le opere quell’incontro che il battezzato ha avuto con Cristo. Altresì, possiamo dire che la religione dei mafiosi non è quella cattolica: la mafia è un distorto complesso di falsi valori e dunque, prima ancora che “per il suo nefasto potenziale di delinquenza e anti-socialità, è incompatibile con il Vangelo”. Inoltre, la Chiesa ha capito fin da subito la pericolosità di tale organizzazione e, anche se a livello gerarchico vescovi e pontefici hanno denunciato la malvagità e l’incongruenza della criminalità organizzata solo a partire dalla seconda metà del XX secolo, a livello locale sono stati numerosi i sacerdoti, ma anche laici credenti, che si sono impegnati a lottare contro l’ombra nefasta della mafia. Allo stesso modo, non dobbiamo dimenticare che i media sono uno degli strumenti principali della lotta alla mafia: una corretta e approfondita informazione, infatti, garantirebbe l’isolamento della criminalità organizzata dalla società. Giovanni Falcone diceva: “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Quel giorno, la cupola, che da simbolo e faro della cristianità è stata snaturata nella sua quintessenza dalla mafia, continuerà ad essere un ponte tra l’uomo e Dio. Non sarà più accostata ad un organigramma che getta la sua ombra malefica grazie ad un potere occulto. Da quella cupola tornerà ad echeggiare un grido di speranza per ogni uomo, una speranza che la mafia non può, non ha potuto e non potrà mai rendere all’uomo: l’incontro con l’Infinito.