QUANDO LA MEDICINA DISCRIMINA

Un aspetto poco conosciuto in Italia, sul quale regna una scarsa informazione, è quello della cosiddetta “Medicina di Genere”, il considerare, cioè, la differenza biologica che può influire, tra maschi e femmine, sia nell’insorgere delle patologie sia nella diversa somministrazione dei farmaci e, infine, nello stabilire una cura appropriata.

La problematica non è di poco conto ed è opportuno approfondire, attraverso le parole di un esperto. La dottoressa Barbara Garavaglia è responsabile della sos Diagnostica dei disturbi del movimento e disordini del metabolismo energetico e direttrice incaricata Uo Neurogenetica molecolare presso la fondazione Irccs Istituto Neurologico “C. Besta” di Milano.

Dottoressa, innanzitutto cosa si intende per “Medicina di Genere”?
“Chiariamo subito che la ‘Medicina di Genere’ non è una medicina per le donne e soprattutto non si occupa delle patologie legate alla riproduzione femminile. La medicina di genere è una scienza che studia e cura le malattie in base alle differenze anatomiche, biologiche, funzionali, psicologiche e culturali di un individuo sia esso maschio o femmina”.

Per arrivare, subito e diretti alla questione: i farmaci hanno davvero un’efficacia e una reazione diversa se assunti da un uomo o da una donna?
“Non si può affermare per tutti i farmaci ma è oggettivamente vero che le donne sviluppano reazioni avverse ai farmaci in una proporzione maggiore rispetto agli uomini soprattutto nell’età fertile. D’altra parte è evidente che uomo e donna non sono certo uguali: diversa è la loro corporatura, diversa la distribuzione del grasso corporeo ecc. Vi sono differenze biologiche tra uomo e donna che influenzano l’assorbimento, il metabolismo e l’eliminazione dei farmaci, per non parlare della variabilità ormonale che caratterizza la vita di una donna e che può influenzare l’efficacia di un farmaco”.

Esiste una discriminazione (il ministero della Salute arriva anche a definirla “impostazione androcentrica”) in fatto di ricerca e di sperimentazione?
“Purtroppo esiste da sempre. Basta prendere un qualsiasi testo di medicina e il modello cui si fa riferimento è sempre quello maschile. La medicina, fin dalle sue origini, ha sempre relegato gli interessi per la salute femminile ai soli aspetti correlati alla riproduzione. Eppure, come scritto nella Costituzione dell’Oms, la salute non è una semplice assenza di malattia, ma uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale. Sappiamo bene che le donne sono le principali, se non le uniche, caregiver in famiglia e quindi sottoposte a stress psichici e sociali maggiori che nell’uomo e quindi più bisognose di cure e attenzioni. I farmaci però non vengono quasi mai sperimentati nelle donne sia per motivi etici (timore dell’insorgenza di una gravidanza durante la sperimentazione) sia per motivi economici. Le donne non sono una categoria omogenea in considerazione della variabilità ormonale che caratterizza la loro vita e questa variabilità aumenta il numero dei campioni e prolunga la ricerca aumentando i suoi costi. Anche nelle ricerche che prevedono l’uso di modelli animali c’è una discriminazione di genere, in quanto sono principalmente i maschi a essere analizzati anche qui per motivi di tempo e costi. Le cavie femmine devono essere maggiormente salvaguardate in quanto servono alla riproduzione, ma la conseguenza è che i risultati sono ‘a misura di maschio'”.

Il famoso “bugiardino” elenca in modo esaustivo le probabili e differenti reazioni in base al sesso di chi usa il medicinale?
“No mai. Si trova solamente la frase cautelativa ‘Attenzione all’uso in gravidanza’ o ‘Non usare in gravidanza’”.

Ci sono, probabilmente, delle malattie alle quali è più soggetta una donna e, viceversa, un uomo?
“Certamente, per esempio le malattie autoimmuni, come la sclerosi multipla o la miastenia, colpiscono di più le donne rispetto agli uomini mentre la malattia di Parkinson o l’autismo sono patologie che colpiscono più gli uomini”.

L’Istituto C. Besta, presso il quale lei opera, ha preso davvero a cuore la problematica, promuovendo diverse iniziative. Ne può ricordare qualcuna?
“Da ormai otto anni organizziamo convegni e seminari sulle differenze di genere nelle patologie neurologiche. Ci siamo occupati di malattie cerebrovascolari, di emicrania, di malattie neurodegenerative e di tumori cerebrali. Abbiamo evidenziato come non solo la frequenza con cui si sviluppa una patologia può essere diversa tra uomini e donne, ma anche i sintomi possono essere diversi tra i due sessi. Per esempio nell’Alzheimer le donne sono più colpite nel linguaggio mentre gli uomini presentano più problemi di tipo comportamentale. Ci siamo occupati anche di sessualità e maternità, tematiche spesso poco affrontate dai medici di fronte ad una donna malata, come se la malattia rendesse la donna non più tale”.

Lei è anche responsabile del comitato unico di garanzia per le pari opportunità all’interno dell’ospedale, in questa veste è maggiormente coinvolta nella questione?
“Sicuramente, in quanto, come abbiamo visto, anche in termini di salute la donna è discriminata. Le donne vivono più a lungo degli uomini ma si ammalano di più. Le donne hanno occupazioni più precarie e/o meno retribuite rispetto agli uomini. Le donne che lavorano sono maggiormente a contatto con il pubblico e di conseguenza maggiormente esposte a violenza correlata al lavoro. Le donne svolgono poi la maggior parte del lavoro domestico che non è considerato un lavoro nemmeno da loro stesse. Le donne sono le principali se non le uniche caregiver della famiglia. Ecco perché come presidente del comitato unico di garanzia per le pari opportunità dell’Istituto Besta mi occupo della salute delle donne”.

Quali sono nel concreto le misure da adottare?
“Modificare i percorsi assistenziali, diagnostici e terapeutici (Pdta), che già esistono per la presa in carico dei pazienti, in un’ottica di genere. Arruolare un maggior numero di donne nei trial clinici, avendo particolare cura delle loro necessità. Spesso le donne non sono disponibili a sottoporsi ai trial perché li vedono come un aggravio in termini di tempo alla loro vita fatta di lavoro fuori e dentro casa. Istituire dei corsi specifici nelle facoltà di Medicina sulla Medicina di Genere, inserirla nei piani strategici sanitari regionali”.

Quali sono, invece, quelle necessarie a livello di informazione e di comunicazione?
“Divulgare e far conoscere l’importanza della Medicina di Genere tramite tutti i mezzi di comunicazione (televisione, radio, social media ecc). Sono tantissime le trasmissioni sulla medicina, pochissime hanno affrontato il tema della Medicina di Genere e pochissimi affrontano le tematiche di una patologia in un’ottica di genere”.

Siamo in una fase di sviluppo e di crescita rispetto ai decenni scorsi o nota una certa stagnazione?
“Fortunatamente siamo in una fase di sviluppo, basti considerare che Aifa ha recentemente aperto un bando per finanziamenti dedicati a progetti sulla Medicina di Genere. Nel documento “Salute 2020: un modello di politica europea a sostegno di un’azione trasversale al governo e alla società a favore della salute e del benessere”, pubblicato dal Who Regional Office for Europe nel 2013, il genere viene riconosciuto come fattore determinante ed essenziale. Anche il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, si è recentemente impegnata a portare la Medicina di Genere nei tavoli decisionali, dichiarando che il tema non è un fattore politico ma scientifico e che è un diritto delle donne a essere curate così come gli uomini”.

A che punto è la nostra situazione in rapporto agli altri Paesi dell’Europa?
“Rispetto agli Usa e i Paesi del Nord Europa, che hanno iniziato a occuparsi di Medicina di Genere negli anni ‘90, siamo ancora indietro ma stiamo recuperando il tempo perduto grazie ad una splendida rete trasversale di donne che si impegnano sul tema. Il grande ostacolo è convincere i medici, i politici, gli accademici maschi della necessità di occuparsi di Medicina di Genere perché solo così si migliora la salute di tutti: donne e uomini”.