Dal prato del pallone al fango della guerra

E’ il 12 settembre 1982, siamo al minuto 9 della prima partita di un campionato che laureerà la Roma, quella di Falcao, Campione d’Italia. Un 21enne, al secondo anno di serie A, si propone in area, e con un preciso colpo di testa mette la palla nel sacco. E’ l’inizio di una cavalcata che porterà fino allo scudetto, ma anche il principio di una brillante carriera nel mondo dorato del calcio. Prima come atleta, oggi come affermato procuratore internazionale. Quel ragazzino si chiama Paolo Alberto Faccini, e mai ti saresti aspettato di trovarlo oggi, 35 anni dopo, lì dove spende parte del proprio tempo: in Birmania.

Al fianco dei Karen

facciniUn ex calciatore di Serie A (il piccolo Riva di Liedholm, veniva chiamato), un procuratore affermato nel calcio olandese e belga, che però lontano dai riflettori e senza alcun clamore è impegnato per i diritti umani. Una storia “nascosta”, poco conosciuta, anche perché lontanissima dal nostro vivere quotidiano. Faccini, infatti, è presente in prima persona al fianco dell’etnia Karen, nel distretto di Dooplaya, in Birmania. La minoranza lotta da circa 70 anni per sopravvivere, schiacciati da un governo che fa affari con i narcotrafficanti.

E’ la droga, infatti, la vera ricchezza del Paese, non il petrolio; e così in questa periferia del mondo nessuno interviene. Ci pensa l’associazione solidarista Popoli, di cui anche Faccini fa parte, con l’obiettivo di aiutare i Karen ad organizzarsi politicamente, anche al fine di evitare un ennesimo esodo di massa verso altre zone del mondo.

Minoranza a rischio

Una lotta senza fine, che passa non solo per le vessazioni che subiscono i Karen, ma anche per l’oggettiva difficoltà di sopravvivere: infezioni e parassitosi della pelle, infezioni alle prime vie respiratorie, dolori articolari che colpiscono contadini e donne relativamente giovani ma sottoposti a lavori estremamente pesanti, e patologie infantili legate spesso a malnutrizione.

“Andiamo in Birmania perché non è sopportabile che un popolo venga annichilito, e crediamo che sia fondamentale aiutarlo in patria – racconta Faccini -. E’ il modo più corretto per evitare che la sopravvivenza passi esclusivamente per l’emigrazione, la fuga, perdendo così terra e radici”. Il sostegno di Popoli è pieno e totale nei confronti di quella parte del movimento di liberazione nazionale che non tradisce i principi della lotta identitaria condotta con coraggio e determinazione da quasi 70 anni. “Siamo vicini al popolo Karen che non accetta di svendere agli occupanti la propria Terra e la propria libertà”.

Minacce

“In alcune zone – spiega l’ex calciatore – è stato fatto un accordo per il cessate il fuoco, ma la pace per i birmani è lavoro forzato per i civili ed estorsione sotto la minaccia delle armi. Tempo fa i soldati birmani avevano raggiunto Little Verona facendosi scudo con donne e contadini Karen. Oggi terrorizzano gli abitanti di Maw Khee (a qualche chilometro dal “nostro” villaggio) sparando in aria, facendosi consegnare tonnellate di legname pregiato, e costringendoli a portare acqua alla guarnigione posta sulla collina che sovrasta l’insediamento”.

Attivismo

Storie drammatiche, lontane anni luce dall’erbetta tagliata rasa dei campi di calcio internazionali, dai contratti milionari e dalle luci della ribalta. Storie che Faccini ha fatto proprie, facendole conoscere in tutta Italia organizzando incontri di solidarietà per la onlus Popoli. Aiutare le popolazioni oppresse a trovare la forza di organizzarsi, assisterle in Patria evitando dolorose fughe all’estero. Un modo diverso di affrontare il problema delle periferie del mondo, quelle dove la legge la decide il più forte, dove nominare i diritti umani è un esercizio inutile, dove la violenza attiva e passiva è pane quotidiano.

Guerra infinita

I media hanno smesso di parlarne da anni, ma la guerra non finisce mai, iniziata nel 1949, dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna, alla fine della guerra mondiale. Il presidente Aung San – padre della più conosciuta premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi – aveva firmato, in accordo con i capi delle diverse comunità etniche che compongono il complesso mosaico birmano, il “Trattato di Planglong” che offriva a ciascun popolo la possibilità di scegliere – entro il termine di dieci anni – il proprio destino politico e sociale. Quel trattato non è stato mai rispettato da Rangoon perchè, dopo un colpo di stato e l’uccisione di Aung San, il potere è passato alla dittatura militare del generale Ne Win. Così, da quasi 70 anni, i Karen – un popolo che conta ben sette milioni di persone – imbracciano le armi.

“Il generale Nerdah Mya – racconta Faccini – è a capo delle forze Karen, e sulla sue testa pendono due taglie: una dei narcotrafficanti, una del governo. Il che la dice lunga su quanto sia difficile creare oasi di libertà in un territorio occupato dalla mano pesante dei militari.

Progressi

“Siamo orgogliosi delle nostre cliniche – è scritto sul sito ufficiale di Popoli – , che in questi villaggi sono punto di riferimento essenziale per decine di migliaia di persone. Siamo orgogliosi delle scuole, dove venti insegnanti si prendono cura di centinaia di bambini Karen. Siamo orgogliosi dei villaggi ricostruiti dopo che questi erano stati distrutti dalle truppe birmane e che oggi ospitano decine e decine di famiglie che hanno ripreso a lavorare i campi e hanno trasformato in un ridente granaio quel territorio che solo dieci anni fa era chiamato “zona nera”, in cui i soldati di Rangoon entravano a loro piacimento saccheggiando e violentando. Ma se oggi quelle aree sono libere è perché c’è chi è disposto a morire per esse”.