L’esempio di Maria accanto alla Croce

In prossimità delle celebrazioni dei riti pasquali, particolarmente sentiti e vissuti dalla pietà popolare durante la Settimana Santa, ci soffermiamo a riflettere sulla figura della Mater Dolorosa: al di là di ogni superficiale devozionalismo, bensì biblicamente fondati, ci lasciamo accompagnare dall’evangelista Giovanni il quale ci descrive la presenza della madre di Gesù al Calvario. Al contrario dei modi enfatici di manifestare il dolore e il lutto diffusi nel mondo antico, e anche nella società giudaica ai tempi di Gesù, Giovanni non riferisce che Maria gridasse, piangesse o si disperasse. Ma scrive, semplicemente, solennemente: “stava”. Il verbo greco qui impiegato ha una molteplicità di sfumature di significato, alcune delle quali possono essere utili per comprendere il nostro contesto. “Stare” è contrapposto a “cadere”, evocando così la capacità di resistenza.

Nella Prima Lettera ai Corinzi l’immagine dello stare contrapposto al cadere evoca proprio la resistenza nella prova. Tenendo questo sullo sfondo, nel contesto della Passione di Cristo, lo “stare” evoca dunque fedeltà nella prova, una fedeltà che si contrappone alla fuga degli altri discepoli che hanno abbandonato il Signore, l’hanno tradito o rinnegato. “Stare” è dunque espressione di fedeltà. Ma è anche una fedeltà che dice comunione: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala”: anche altre donne “stavano”; non si può “stare” in solitudine, si può “stare” solo nella comunione.

Quanta dignità e forza in questo “stare”: l’uso di questo verbo ci trasmette l’idea di un’insolita stabilità, dignitosa e piena di attenzione, nel saper “rimanere” nelle situazioni. E poi: Maria non sta “ai piedi” della Croce, quasi fosse icona di sottomissione, passività e dolore, ma, è scritto nel Vangelo, sta “presso” la Croce, in un significato di dignitosa forza e prossimità a colui che soffre.

E’ quello che l’arcivescovo di Catanzaro mons. Bertolone indica nell’ultima sua lettera pastorale: “Il fascino del Vangelo della tenerezza”, quando raccomanda di “essere popolo e curare le fragilità… questo, per gli operatori pastorali, significa, come per don Puglisi, rimanere vicini alla vita della gente, con una profonda attenzione piena d’amore, alla miseria umana, in quanto tocchiamo la carne sofferente degli altri”.

Vicinanza, ascolto, “farsi prossimo”: lo “stare” di Maria è coscienza critica di fronte ai mali del mondo e questo è il compito che interpella gli uomini e le donne di oggi. Il dolore c’è nell’esperienza umana e questo è un dato incontrovertibile: ma può essere una vera scuola di compassione e di resurrezione. Con Maria, non ci si ferma a contemplare un Crocifisso, che se rimanesse per sempre inchiodato, diverrebbe uno dei troppi crocifissi aggiunti alla storia. Non si è come i due di Emmaus, che si erano fermati al Crocifisso e se ne andavano quindi con il volto triste. Con forza Edith Stein afferma: “La croce non è fine a se stessa. Essa si staglia in alto e fa da richiamo verso l’alto”.