MENINGITE: MINACCE E PREVENZIONE

E’ uno degli argomenti più trattati, discussi e, inevitabilmente, più temuti degli ultimi mesi, se non altro per l’aumento considerevole della sua casistica, in particolare nella regione Toscana. Ma cos’è la meningite? E come si combatte? Come parlarne e approfondire i dettagli clinici, sapendo quali e quante misure di prevenzione esistono, senza lasciarsi andare ad allarmismi? E’ quanto abbiamo chiesto all’infettivologo dott. Guido Camanni, della Usl 2 Umbria, specializzato nel trattamento della malattia. Dalle caratteristiche biologiche alle diverse manifestazioni, dalla descrizione delle sintomatologie all’efficacia della vaccinazione: un excursus dentro la questione, per comprenderla, conoscerla e riconoscerla.

Cos’è, innanzitutto, la meningite?

S’intende un’infiammazione delle meningi, che sono le membrane di rivestimento del nostro sistema nervoso centrale. Le cause infettive possono essere di tipo virale, batterico oppure protozoario. Quelle più frequenti, però, sono le prime due. L’infiammazione di cui parliamo adesso è sottintesa su base infettiva. Quella in Toscana è una meningite batterica, legata a un’infezione da meningococco di tipo C.

Di cosa si tratta?

Il meningococco è un batterio da gram-negativo (per gram s’intende la colorazione specifica come appare sul vetrino) e si riscontra a coppie: per questo viene definito “diplococco” e appare sostanzialmente nella forma di un chicco di caffè. Ne esistono diversi tipi, perché la famiglia dei meningococchi ha all’interno vari sottotipi. In Italia circolano principalmente quelli B e C.

In quali forme si manifesta?

Dal punto di vista clinico le manifestazioni sono identiche. Il problema della meningite meningococcica è che in una certa percentuale di casi, attorno al 10%, si può manifestare in una forma iperacuta, estremamente aggressiva, identificata sotto il nome di Sindrome di Waterhouse-Friederichsen, dal nome dei due scienziati che l’hanno studiata. Questa forma ha un elevato tasso di mortalità e in tempi molto brevi. Se viene contratta un’infezione da meningococco di questo tipo, è necessario effettuare il massimo sforzo terapeutico, non solo antibiotico ma anche rianimatorio perché è una forma che necessita alti livelli di assistenza. I rischi sono non solo di perdere la vita ma, come nel caso della campionessa paralimpica Bebe Vio, di avere a che fare con una meningite fulminante che, danneggiando i vasi sanguigni, comporta l’ischemia delle estremità, con conseguente rischio di amputazione.

In che modo va affrontato, dal punto di vista terapeutico?

Gli antibiotici impiegati sono quelli di larghissimo uso. La penicillina è il farmaco d’elezione, per la precisione la penicillina G. La meningite meningococcica, nella sua forma non iperacuta, ha in realtà una buona prognosi e, generalmente, risponde molto bene al trattamento: nel giro di pochi giorni la persona sta meglio, e anche gli esiti a distanza sono pochissimi. Non ci sono, se non raramente, esiti di tipo neurologico o, peggio ancora, necessità di amputazione. Questo nella sua forma standard, nel 90% delle meningiti meningococciche.

Esistono altre forme circolanti?

Da un punto di vista pratico, in realtà, la meningite meningococcica è meno grave rispetto a quella data da un altro batterio molto aggressivo, lo pneumococco. Questo, infatti, dà una maggiore mortalità e maggiori esiti neurologici, come le ipoacusie, cioè il danneggiamento dell’orecchio. Entrambi questi ceppi sono prevenibili mediante vaccinazione. Tuttavia, poiché anche di pneumococco ne esistono molti ceppi, nei vaccini non si riesce a inserirli tutti. Si cerca così di agire su quelli più frequenti.

A proposito della vaccinazione…

Per quanto riguarda il meningococco, in Italia è stata da anni acquisita, a livello del sistema sanitario nazionale, la vaccinazione contro il gruppo C, diretta quindi contro quel singolo ceppo. Essendo circolanti, nel nostro Paese, i gruppi B e C, e non avendo a disposizione un vaccino per il primo fino a pochi anni fa, la scelta che venne fatta a livello di sanità pubblica è stata di utilizzare unicamente quello diretto verso il meningococco di tipo C, che ha una buona risposta anticorpale a fronte di effetti collaterali assolutamente minimi quanto a frequenza e gravità.

E per quanto riguarda il tipo B?

Da pochi anni abbiamo a disposizione anche il vaccino per questo gruppo, ed è stato inserito nel nuovo piano nazionale. A oggi, ci sono solo alcune regioni che lo danno gratuitamente. Ci sarà, da qui a breve (ma non è quantificabile), un’acquisizione da parte del sistema sanitario, in modo tale da coprire la stragrande maggioranza dei ceppi che circolano in Italia. Poi è chiaro che c’è il discorso dei viaggi all’estero: se si va in Paesi dove circolano altri ceppi e si ha solo la copertura per B e C, si risulta solo parzialmente protetti.

Come si caratterizza il piano vaccinale?

Lo schema vaccinale è un po’ complesso, dipende dall’età: la strategia, in generale, per quanto riguarda la meningite meningococcica, è stata quella di vaccinare già dal primo anno di vita, per il semplice motivo che, se noi ci infettiamo con il meningococco, la probabilità di sviluppare la forma più grave di meningite è anche in funzione dell’età: più siamo piccoli, più è alto il rischio. L’altra grande difficoltà, siccome ci sono diverse malattie infettive gravi e la fascia più a rischio è quella dei primi due anni, è cercare di garantire una copertura per tutte quelle più pericolose, cercando di arrivare in tempi rapidi a una buona produzione di anticorpi protettivi da parte del bambino. Il tutto in maniera fattibile perché non si possono fare troppe vaccinazioni tutte insieme. Bisogna fare una scelta che, avendo una ricaduta sulla popolazione, dev’essere sostenibile non solo economicamente ma anche logisticamente, perché se la popolazione non fa la vaccinazione, viene meno una parte dei benefici, il cosiddetto effetto gregge.

Cioè?

Una protezione collettiva: se io prendo o no una pasticca per la pressione, non cambia nulla per la salute dei terzi. Per la vaccinazione, invece, il discorso è diverso: come proteggiamo quelli che non possono vaccinarsi? In un branco, i soggetti più indifesi vengono messi al centro (effetto gregge); se in una popolazione umana riesci ad avere una copertura di soggetti vaccinati superiore al 95% (ad esempio per il morbillo), è estremamente difficile che il virus possa circolare in quella comunità, se non provenendo da fuori. Questo è un valore aggiunto nei confronti di quelli che non si possono vaccinare. Per questo io dico sempre, quando vengono i genitori in ambulatorio, che la scelta di vaccinare o no i figli è una scelta individuale e sociale, perché quello che faccio per il bene di mio figlio ha una ricaduta positiva anche e soprattutto per i soggetti più in difficoltà.

Al netto di questo, quanta copertura garantisce il vaccino? E’ possibile subire gli effetti peggiori della malattia pur essendo vaccinati?

Nessun vaccino ha un’efficacia al 100%: su 100 vaccinati, non tutti svilupperanno un adeguato sistema di anticorpi. E ci sono vaccini più o meno efficaci. Faccio l’esempio della tubercolosi e dell’epatite C: sulla seconda abbiamo un’efficacia attorno al 95%, sulla prima inferiore al 50. C’è però un grosso problema sociale in atto: una campagna contro le vaccinazioni. Ci sono stati momenti storici in cui la popolazione, per vari motivi, ha avuto paura di una data vaccinazione e si è assistito a un crollo con conseguenti focolai epidemici. Un mio professore diceva che la percezione del rischio è anche in funzione dell’esperienza del danno. Dal momento che la maggior parte di queste malattie, proprio per l’azione efficace della copertura vaccinale, non si vede se non in casi sporadici, si è arrivati a una scarsa percezione di quello che significa incontrare il germe e affrontare la malattia. E quindi, dato che, come ogni altro atto medico, anche la vaccinazione ha i suoi effetti collaterali, in questo periodo sui canali di internet c’è una forte campagna anti-vaccinale incentrata soprattutto su questo aspetto. Occorre però una formazione corretta: vanno conosciuti gli effetti, stimate le reali frequenze e paragonate con i danni da incontro diretto con la malattia. Bisogna disporre di dati veri: su internet c’è di tutto, anche con grosse prese di posizione aprioristiche. La persona che non ha una formazione specifica fa fatica a discernere un sito che sia onesto, supportato dalle migliori prove a disposizione.

In conclusione, come possiamo accorgerci di aver contratto la meningite?

La fase prodromica non è assolutamente tipica, perché può essere rappresentata da febbre, mal di testa, disturbi gastrointenstinali. Nella sua manifestazione acuta, si presentano cefalea, rigidità nucale e febbre, una triade che può far pensare a una meningite. Ci sono altri segni, ma questi vengono riscontrati in visita medica. La trasmissione è orofaringea e ci sono molte persone che albergano il meningococco senza sviluppare la malattia. Quello che conta è lo sviluppo o meno della malattia (triade). A quel punto, l’esame d’elezione è la puntura lombare, per prendere il liquido che circola attorno al nostro sistema nervoso, il liquor, e da lì si vede benissimo. Poi occorre fare la profilassi dei contatti, che avviene con terapia antibiotica: si può usare la ciprofloxacina o la rifampicina. Comunque, non possono essere inseriti in programmi precisi, perché devono essere dati dal medico.