Il partito di Mattarella

Ma esiste o no il partito di Mattarella? La domanda, tutt’altro che retorica, è diventata il vero convitato di pietra di tutti i ragionamenti che si vanno consumando fuori e dentro i palazzi della politica, incentrati sulle elezioni anticipate o no. Perché dopo il grande freddo adesso è il momento dell’inverno caldo, delle sfide a viso aperto e delle faide nel chiuso delle segreterie dei partiti, nessuno escluso. Del resto è chiaro a tutti come la sentenza della Consulta sulla legge elettorale abbia determinato la saldatura di nuove alleanze in Parlamento e il consolidamento di altre posizioni fuori dalle Aule.

All’interno di questo schema il Quirinale non ha, non può avere soprattutto, una posizione neutra. Nemmeno la Carta, in fondo, è in grado di sterilizzare le idee del capo dello Stato, che vengono condivise o contrastate. Partiamo da un dato oggettivo. Nel giorno stesso in cui la Corte Costituzionale ha modificato l’Italicum, le forze politiche hanno dato vita a inedite convergenze. La decisione dei giudici, modificando il modello elettorale impone scelte chiare. Bocciato il ballottaggio, resta il premio di maggioranza per il partito in grado di raggiungere il 40% dei voti.

Per molti questo è il segnale che il voto si avvicina. I renziani puntano sul ritorno alle urne in primavera. E così si schierano la Lega Nord e il Movimento Cinque Stelle. Del resto la nota della Consulta che accompagna la sentenza spiega chiaramente che la legge “è suscettibile di immediata applicazione”. Se c’è la volontà, insomma, si può tornare subito a elezioni. Dall’altra parte si delinea il fronte di chi preferisce prendere tempo. Aspettando, magari, il termine naturale della legislatura. Forza Italia e la minoranza Pd chiedono che il Parlamento sia chiamato a interpretare il suo ruolo, armonizzando le leggi elettorali di Camera e Senato. E con loro c’è la schiera poco visibile, ma ben presente, dei parlamentari alla prima esperienza di Palazzo. Evidentemente poco propensi a tornare anzitempo al voto.

Al di là delle poco ragionevoli motivazioni dei poltronisti a caccia del vitalizio, i paletti per non andare alle urne sono legati anche al rapporto con l’Europa. Votare prima potrebbe evitarci manovre correttive ma non ci metterebbe affatto al riparo dagli strali di Bruxelles, pronta a farci pagare tutti conti. Sullo sfondo poi c’è anche Trump. Il presidente americano ha fatto capire che l’unico vero interlocutore italiano è il capo dello Stato, non altri. Questo potrebbe essere un fattore importante, capace di spostare l’ago della bilancia. E proprio su questa linea potrebbero attestarsi i mattarelliani, formazione alla quale si sarebbe iscritto non solo chi punta a prendere tempo, ma anche chi mira a stabilizzare il Paese.

Guardare con attenzione al Colle è una necessità più che un bisogno. Non sfugge a nessuno il fatto che sia stato proprio il Presidente, prima di Natale, a sottolineare l’esigenza di due leggi elettorali “omogenee e non inconciliabili”. Il capo dello Stato, ovviamente, non ha commentato la sentenza della Corte costituzionale. Ma dal Quirinale sembra trapelare una particolare attenzione per le motivazioni della sentenza della Consulta, attese per metà febbraio. Solo dopo averle lette, infatti, il Parlamento potrà avviare una approfondita riflessione sulla decisione dei giudici.

Intanto c’è un aspetto della sentenza che rischia di avere importanti ripercussioni all’interno dei partiti. Il verdetto della Consulta ha lasciato intatto il sistema dei capilista bloccati. È un passaggio decisivo per i delicati equilibri delle forze politiche. Chi comporrà le liste potrà gestire con attenzione le candidature, assicurando ai fedelissimi un posto nel nuovo Parlamento. Nel Partito democratico, così, Renzi potrà garantire i suoi, lasciando alla minoranza il difficile compito di conquistarsi i voti sul territorio. Allo stesso modo gli altri leader, da Berlusconi a Grillo, decideranno di fatto la composizione di buona parte dei prossimi gruppi parlamentari.