“AMO CUCIRE LE VITE LACERATE”

I denti bianchissimi risplendono e illuminano questa splendida suora ugandese, che non ha perso la voglia di accogliere tutti con un sorriso, nonostante le tante cose terribili viste nella sua vita. “La mia forza viene da Dio, lui si prende cura di me”. Rosemary Nyirumbe delle suore del Sacro Cuore di Gesù, ha salvato migliaia di ragazze stuprate, denigrate, sfregiate nel cuore e nel corpo, rapite ed usate come macchine da guerra dall‘Esercito di Resistenza del Signore (Lra), capeggiato dal folle Joseph Kony, ricercato come criminale di guerra dal Tribunale dell’Aja.

Considerato uno dei terroristi più pericolosi al mondo dagli Usa, dal 1987 fino al 2006, in nome di un “dio”, con i suoi uomini ha terrorizzato e insanguinato il Nord Uganda, lasciando dietro di sé trentamila morti, due milioni di profughi, e schiavizzando centomila minori come baby soldato. Un terzo di queste vittime erano bambine, addestrate ad impugnare le armi contro il loro stesso popolo e perciò scartate dalla loro comunità. Oggi sono donne. “Le aiutiamo a perdonare soprattutto se stesse e amare i loro figli, anche se sono il frutto della violenza. Sono loro le vere vincitrici della guerra” mi racconta Suor Rosemary.

Mentre parla, tiene accanto a sé una borsetta luccicante e colorata. Osservandola attentamente, noto che non è fatta di normale tessuto. “È costruita con le linguette delle lattine che vengono gettate tra i rifiuti una volta che si è bevuto il contenuto” spiega. È alla scuola di formazione professionale femminile di Santa Monica a Gulu, nel nord Uganda, che si realizzano queste borsette. Pezzi unici venduti all’estero, tutti fatti a mano dalle sue ragazze.

“Si mettono insieme quei pezzi che sono stati buttati via, proprio come queste ragazze. Quando lavoriamo duro con loro e le aiutiamo, queste ragazze diventano belle, così come i pezzi scartati quando li mettiamo insieme diventano una borsa, diventano belli”.
Su di lei è appena uscito con l’editrice Emi il libro Suor Rosemary. Cucire la speranza. La donna che ridà dignità alle bambine soldato, di Reggie Whitten e Nancy Henderson. Ha iniziato ad aiutare queste ragazze facendo piccole cose, senza alcun piano strategico. Ha accolto anche una delle 60 mogli di Kony e i suoi bambini. Per il suo impegno nel 2007 la Cnn l’ha eletta eroina dell’anno e nel 2014 il Time l’ha inserita tra le 100 persone più influenti al mondo. Un metro e 50 di simpatia che a questi onori non sembra per nulla interessata. “Ti dico la verità. Io sono una piccola persona, una persona bassa, e non sono mai diventata alta, non cresceòr”. Una piccola donna che non ha mai smesso di sognare in grande.

Come va in Uganda in questo momento?
“Ora c’è la pace, ma la gente deve far fronte alle conseguenze della guerra”.

Sei sopravvissuta a due dittatori. Come hai maturato la vocazione?
“La mia vocazione è nata quando ero molto giovane. Sono passata dalla stagione del dittatore Idi Amin e di Joseph Kony, mi sento una sorta di prodotto della guerra. La mia chiamata è stata proprio quella di affrontare le sofferenze, soprattutto delle donne e dei bambini”.

Che tipo di sofferenze ha portato l’esercito di Josef Kony?
“È impossibile descriverle perché ha causato effetti profondi e duraturi. Tanti sbagliano pensando che la guerra dell’Lra sia finita nel 2006. Per rispondere a questo dolore l’unico modo è essere presenti con le vittime”.

L’Lra ha compiuto violenze in nome di Dio, come oggi avviene con l’Isis.
“Tutta la gente ragionevole capisce che è sbagliato utilizzare Dio per una azione violenta. Guardando a cosa ha fatto questo esercito, si capisce che tutti i comandamenti di Dio sono stati infranti. Non c’è alcun tipo di giustificazione a tirarlo in ballo per compiere un’azione violenta”.

Si possono rimarginare le ferite di queste ragazze?
“Ti rispondo con la storia di Janet. Non guardava nessuno in faccia, non voleva mai incrociare lo sguardo. ‘Cosa posso fare per lei?’ mi sono chiesta. Non sono una councelor o esperta di psicologia. Mi sono messa semplicemente accanto a lei. Ha iniziato a raccontarmi che era
stata strappata alla sua famiglia ed era sempre stata con i ribelli. Ho pensato allora di farle fare qualcosa di diverso e abbiamo iniziato a cucinare assieme. È diventata la miglior allieva del corso di cucina”.

È un lungo lavoro?
“Vivendo con queste ragazze ho capito che la riabilitazione non è metterle in una struttura riabilitativa, ma essere con loro per tutto il tempo che serve, e riabilitare queste ragazze prende molto tempo”.

È difficile per queste donne accettare i figli nati dalla violenza subita dai ribelli?
“Bisogna tenere conto del fatto che per la loro tradizione i figli sono figli del padre, e quindi è difficile inserire i figli dei ribelli nel gruppo della madre. Per questo cerchiamo di rendere indipendenti queste giovani mamme. Questa esclusione l’abbiamo sperimentata anche nell’asilo della nostra scuola, perché gli altri genitori non volevano mettere i loro figli con figli dei ribelli. Ma io ho detto: ‘Nel nostro asilo non abbiamo figli di ribelli, abbiamo dei bambini innocenti”. E pian piano le cose son cambiate”.

Come vivi tutto questo dolore che incontri?
“Vivere tutto questo è stato ed è pesante, ma mi ha aiutato a crescere. Mi ha aiutato a capire che Dio mi ha chiamato a dare la mia vita per il mio popolo. Avrei potuto anch’io essere nella stessa situazione di queste giovani. È solo per grazia sua se io sono cresciuta con la mia famiglia, ho studiato e ho avuto una istruzione adeguata che ho potuto restituire. La maggior parte della mia vita è stata vissuta in una situazione
di violenza, ma il Signore mi ha sempre protetta e penso che ci sia ancora da fare per me, visto che non sono ancora stata uccisa”.

Dici spesso che “qualsiasi cosa, compresa la fede, è meglio praticarla che predicarla”.
“Io parlo di Dio a queste persone che accolgo con la mia presenza. Non è una scuola, ma una casa dove noi possiamo far vedere che Dio è presente. E siccome ho dato la mia vita, non sarei stata lì se non avessi creduto. Io ho scelto di mostrare il Dio visibile stando lì con loro”.

“Cucire la speranza”: da dove nasce il titolo del tuo libro?
“A queste donne che sono state istruite ad usare una machine gun (mitragliatrice) per uccidere, noi insegniamo ad usare una macchina per cucire. Si può cucire un vestito e ricucire una situazione di vita lacerata. Oppure prendere dai rifiuti dei tappi delle lattine per costruire borsette e rimettere assieme i pezzi per ricostruire la vita di queste ragazze. Cerchiamo di cucire le vite spezzate, vite sconvolte dalle mitragliatrici e dai ribelli. Per questo per me la macchina da cucire è così significativa”.

Quale metodo usi?
“È qualcosa che viene dal cuore. Non avrei mai pensato di ottenere questi risultati. Io sono molto affascinata dalla possibilità di trasformare dei rifiuti in bellezza, in un tesoro. E sono totalmente convinta che delle persone che sono considerate un rifiuto possono diventare belle e diventare un grande tesoro per la società”.

Fai ancora l’ostetrica?
Sorride… “I love it!”.

Attualmente quali sono le emergenze?
“Adesso arrivano i rifugiati dal Congo, dal Sudan. Aiutiamo le donne che soffrono a causa delle conseguenze della guerra, che non hanno avuto la possibilità di una istruzione. Siamo impegnate anche con le donne incatenate in prigione e chiediamo alle autorità carcerarie di dare il permesso di portare fuori i loro bambini dal carcere. Ci sono tante cose in cui siamo coinvolti, sono gli effetti della guerra”.

Dove trovi la forza di sperare?
“Per me è la fede, è Dio che mi dà speranza. Ho fiducia che la situazione possa cambiare con il nostro coinvolgimento. Le persone non dovrebbero pensare: “Non posso fare niente, non ce la faccio perché la situazione dell’Africa è troppo terribile, troppo grave”. Coinvolgendosi
con questo bambino, con quella donna, la situazione cambierà. Ognuno di noi può fare molto perché il mondo cambi. Almeno dovrebbe provarci. Ho imparato che se condividi i sogni con altri si concretizzano. Se sogni in grande, si avverano grandi cose. Non smetterò mai di sognare in grande”.

Tratto da “Sempre”