Un guerra tra poveri

La pressione è alta, la tensione altissima. La protesta nell’hinterland della “rossa” Ferrara contro l’arrivo di 20 profughi (tra cui 11 donne) la dice lunga sul sentimento di esasperazione che pervade la società attuale. Barricate in strada, così come in altre parti d’Italia. Un fuoco su cui soffia il populismo, certo, ma anche la fotografia di un Paese in affanno, che rifiuta l’altro non perché “di colore” ma per difendere il proprio diritto al lavoro, a dare un futuro ai propri figli.

E’ in questo senso che le Istituzioni dovrebbero muoversi, invece di cavalcare l’onda e farne una battaglia politica, spostando l’asse del ragionamento sul “razzismo o accoglienza”, che è un modo a mio avviso errato di affrontare il problema.

I numeri da considerare, infatti, non sono solo quelli degli sbarchi, che pure sono impressionanti. Con 153.450 arrivi nel 2016 si registra infatti il 10% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e si supera di 1.300 persone il totale segnato nel 2014, che alla fine, con 170mila sbarcati, diventò l’anno con il maggior numero profughi giunti in Italia.

Per capire la situazione, a queste cifre dobbiamo aggiungerne altre: sia a settembre sia a ottobre l’occupazione è diminuita dello 0,2 per cento: nei due mesi il numero degli occupati è calato di 84mila unità. Nel complesso annuale si è invece avuto un lieve aumento, ma dipende dal fatto che la legge Fornero impedisce di andare in pensione; e dunque di creare nuovi posti, tant’è che nonostante il numero dei lavoratori dipendenti e di quelli indipendenti sia aumentato, il miglioramento non riguarda in nessun modo la fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni, per i quali il tasso di disoccupazione sale di 0,4 punti.

Insomma, un Paese che non dà lavoro ai giovani e non manda a riposo gli anziani è un Paese al collasso. E non bastano dichiarazioni ottimistiche a cambiare la situazione. E’ in questo contesto che si sviluppa la caccia all’invasore, non in quanto appartenente ad un’altra religione, né a un altro Paese, né per il colore della pelle. Ma perché l’arrivo drena risorse togliendole – e questo è il sentire popolare – alla comunità locale. Che reagisce male. Non sapendo che quei soldi destinati all’accoglienza sono vincolati a quel tipo di impiego, che l’Europa li eroga a fronte di precisi impegni che vanno rispettati. E che alla fine, cosa più importante, quando un essere umano tende la mano deve trovarne un altro che la afferra. E’ il principio stesso di “umanità” che lo impone.

Oggi però tutto ciò non accade. Il punto dunque è rimettere in moto l’economia, cambiare il mondo del lavoro, dare garanzie ai giovani e sicurezze agli anziani. E’ questa la strada da percorrere, e non ci saranno più blocchi stradali, perché mentre qualcuno si impegna per dare accoglienza qualcun altro non starà in mezzo alla via ma in un ufficio o una fabbrica o un negozio a lavorare per la propria famiglia.