Bilancio, il mito della flessibilità

Ultimamente si sta assistendo a un dibattito relativo alla “flessibilità” di bilancio, spesso invocata dal Governo sia tramite il Premier Matteo Renzi sia per tramite dei ministri Padoan o Calenda. Si sostiene, infatti, che l’austerity abbia fallito e che le politiche di risanamento operate in Europa in questi anni abbiano contribuito a portare l’economia in stagnazione impedendo gli investimenti.

In effetti, a voler ben vedere, l’azione del Governo Monti che si caratterizzò quasi esclusivamente con un inasprimento fiscale volto a penalizzare la domanda interna per spingere il saldo della bilancia commerciale in attivo ha portato solo a una recessione e all’esplosione del debito pubblico, sia in termini assoluti sia in termini relativi in raffronto al Pil che, dal 2011 a quest’anno, ha continuato a calare.

È la prova che l’austerità non funzione? La risposta, in termini colloquiali, sarebbe “ni”.
Giustamente Alberto Alesina, in una recente intervista su Il Foglio, ha detto “Se i governi facessero quello che dovrebbero fare non ci sarebbe mai bisogno di austerità. Anche seguendo ciò che dice la teoria economica keynesiana, ovvero facendo deficit in recessione e surplus quando l’economia è in espansione, in media il bilancio sarebbe in pareggio e il debito non si accumulerebbe” e, in effetti, il nocciolo della questione sta tutto lì.

Quando si invocano strumenti “keynesiani” per uscire dal impasse economico non si considera che la teoria di Keynes nacque in un contesto in cui la spesa pubblica era la metà di quella attuale, gli Stati erano più leggeri e meno costosi, così come la pressione fiscale era anche di venti punti inferiore a quella attuale (pur con aliquote massime che potevano toccare, in taluni casi, fino all’88%) mentre oggi gli spazi di manovra sono nettamente inferiori con circa la metà del Pil intermediata dallo Stato. È evidente che la risposta non possa essere in maggiore spesa e che, quindi, la “flessibilità” non possa essere richiesta per poter avere più risorse da immettere nella spesa corrente.
Il vero problema, aldilà del peso dell’apparato pubblico che deve divenire meno costoso e meno intrusivo nell’azione economica degli agenti, sta anche nelle regole contabili nazionali.

Il bilancio degli stati europei, infatti, è per cassa, non distinguendo, quindi, investimenti e spesa corrente. Lo stanziamento per una nuova autostrada, ad esempio, viene contabilizzato in toto nell’anno di inizio dei lavori andando a creare una componente negativa di reddito esattamente come il cash flow riferito al pagamento stipendi della Pubblica Amministrazione.

A chiunque è chiara la differenza fra il primo caso e il secondo, l’autostrada rappresenta un impegno finanziario pluriennale, che vedrà la realizzazione in un lasso di tempo più o meno lungo, mentre il pagamento stipendi è un costo spot. Nei bilanci privati gli investimenti hanno la possibilità di essere ammortizzati in un congruo lasso temporale, imputando anno per anno la quota di competenza della componente negativa di reddito, questo non avviene nel caso del bilancio dello stato.

Non è un caso che gli “stati virtuosi” abbiano gli investimenti bloccati da anni, concentrandosi, invece, meramente sul saldo delle partite correnti e, dal lato dell’avanzo primario, a non riuscire ad eguagliare l’Italia che da anni ha un saldo attivo ben più alto degli altri partner europei.

Quello che non funziona a livello di bilancio, infatti, è il pagamento del debito pregresso, figlio degli anni di spesa facile per assicurarsi un ritorno elettorale trasformando lo stato italiano sia nel principale datore di lavoro sia nel più importante ammortizzatore sociale esistente tramite un sistema di assunzione delle eccedenze di personale derivanti da questa o quella ristrutturazione aziendale privata.

Ovvio che non si possa pensare a un rinnegamento del debito, un autentico default, come sostengono diversi guru economici da tastiera sul web, così come a un mero rollover dello stesso andando a rinegoziare tassi e scadenze per avere più respiro a livello di cassa, ma una buona politica di riduzione di spesa, sia a livello di acquisti sia a livello di personale con un blocco totale del turn over interno finché i livelli occupazionali non tornassero a un livello accettabile, per numero di impiegati e per spesa in salari, unita a una modificazione delle regole di bilancio adottando quello che il Codice Civile sarebbero certamente dei mezzi di rilancio del sistema ben più che la continua richiesta di “flessibilità” di spesa poiché si libererebbero risorse importanti per gli investimenti senza dover attingere ai redditi e ai patrimoni dei cittadini, come hanno fatto quasi tutti i Governi negli ultimi trent’anni, o ricorrere a nuova spesa in deficit che, comunque, si configura come un’imposta differita.

Il segreto per il rilancio dell’economia sta in una tassazione ragionevole e certa unita a un peso dello stato, soprattutto a livello burocratico, poco intrusivo nelle azioni di individui ed aziende. Tutto questo consente di migliorare le aspettative che, unite a una maggiore quantità di risorse “nelle tasche” di cittadini e imprese, vanno a spingere consumi e investimenti, quello che oggi ancora manca in Italia cioè e che, invece, ha permesso il rilancio di una nazione sull’orlo del fallimento come l’Irlanda.