CINQUE CERCHI DI SPERANZA

Alle spalle fatica e sudore, ma non è quella dei comuni atleti che si preparano per una competizione. Perché loro non fanno parte di una nazionale, non hanno una casa, né una bandiera, né un inno. La loro è una storia non di rivincita ma di speranza, nel segno olimpico che dagli albori rappresenta un momento di riflessione anche rispetto alle guerre. Sono dieci atleti, due provenienti dalla Siria, due dal Congo, cinque dal Sudan, e uno dall’Etiopia, tutti rifugiati. Per la precisione: due nuotatori siriani, due judoka provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo, e sei corridori provenienti da Etiopia e Sud Sudan. Sono tutti fuggiti da violenze e persecuzioni nei loro paesi e hanno cercato rifugio in luoghi come il Belgio, la Germania, il Lussemburgo, il Kenya e il Brasile.

L’iniziativa di inviare una squadra di rifugiati ai Giochi di Rio è senza precedenti e manda un forte messaggio di sostegno e di speranza per i rifugiati in tutto il mondo in un momento in cui il numero di persone costrette ad abbandonare la propria casa a causa di conflitti e persecuzioni è senza precedenti. La popolazione mondiale di rifugiati, sfollati e richiedenti asilo ha raggiunto un record di 59,5 milioni alla fine del 2014 ed è in continuo aumento da allora.

“Noi offriremo loro una casa nel villaggio olimpico, insieme a tutti gli altri atleti del mondo – ha detto il presidente del Comitato Olimpico Thomas Bach -. Per loro sarà suonato l’inno olimpico, mentre la bandiera delle Olimpiadi sventolerà negli stati per rappresentarli. Questo sarà un segnale di speranza per tutti i rifugiati del mondo, e farà capire ancora meglio al pianeta la portata enorme delle crisi dei rifugiat”. Chi sono? Yiech Pur Biel che gareggerà negli 800m; James Nyang Chiengjiek nei 400m; Paulo Amotun Lokoro nei 1500; Rose Nathike Lokonyen negli 800 e Anjelina Nada Lohalith nei 1500m. Yonas Kinde, gareggerà come maratoneta. Yusra Mardini e Rami Anis, nuotatori nati in Siria. I due judoka Popole Misenga e Yolande Bukasa Mabika.

Ognuno ha una storia da raccontare. Come Yusra, che ha perso le scarpe nella traversata in un mare che la voleva inghiottire. Ha provato l’orrore di stare nelle mani dei trafficanti, prima per arrivare a Lesbo e poi nel viaggio verso la Germania”. Biel proviene da un campo profughi nel nord del Kenya, dopo essere scappato dal Sud Sudan. Misenga all’età di 9 anni è rimasto 8 giorni nella foresta, dopo essere fuggito da Kisingani, nella Repubblica Democratica del Congo, strappato alla sua famiglia dalle violenze. E’ stato recuperato in pessime condizioni e portato in un centro per bambini sfollati, a Kinshasa. E iniziato al Judo. Ma quando perdeva una gara doveva restare chiuso in una gabbia senza mangiare. Ai campionati del mondo del 2013 ha chiesto asilo politico.

Storie che si intrecciano con quelle degli altri atleti di questa “strana” nazionale. Quasi tutti hanno perso i contatti con le famiglie d’origine. I villaggi distrutti, le comunicazioni impossibili. La speranza di riabbracciare i propri cari è pari a quella di lanciare un messaggio per tutti i rifugiati, specialmente giovani, che si trovano sparsi nel mondo. La partecipazione di una squadra di rifugiati alle Olimpiadi rappresenta una pietra miliare nella collaborazione di lunga data dell’Unhcr con il Coi. Questo rapporto, che dura da 20 anni, è stato deterante nel promuovere il ruolo dello sport nello sviluppo e benessere dei rifugiati, in particolare dei bambini, in tutto il mondo.

L’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ci crede: “Siamo molto ispirati dalla squadra olimpica di atleti rifugiati – avendo dovuto interrompere la loro carriera sportiva, questi atleti rifugiati di alto livello avranno finalmente la possibilità di perseguire i loro sogni”, ha dichiarato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Filippo Grandi. “La loro partecipazione alle Olimpiadi è un omaggio al coraggio e la perseveranza di tutti i rifugiati nel superare le avversità e costruire un futuro migliore per se stessi e le loro famiglie”.