Tassi di interesse e inflazione, facciamo chiarezza

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In questi mesi, uno degli argomenti più dibattuti è focalizzato sulla politica monetaria aggressiva condotta dalla Banca Centrale Europea per contrastare l’inflazione che ha colpito tutta l’Eurozona nel corso dell’ultimo anno. Da luglio 2022 ad oggi ci sono stati dieci rialzi dei tassi di interesse che hanno portato il valore di riferimento a livelli record nella storia della moneta unica ma non sembra che la cosa abbia avuto il risultato sperato quanto più abbia acuito le criticità nel continente che stava faticosamente uscendo dal periodo segnato dalla pandemia di Covid 19, azzoppandone la ripresa. Forse, però, adesso sarebbe il caso di capire meglio cosa sia l’inflazione e perché la BCE abbia perseguito un piano che a molti sembra inopportuno e miope. Cos’è l’inflazione?

La definizione più comune e riportata anche sul sito della BCE la descrive come un aumento generalizzato e prolungato dei prezzi che porta alla diminuzione del potere d’acquisto e del valore reale della moneta. Manca qualcosa, però! L’inflazione è un fenomeno monetario e deriva, detto con l’accetta, dal deprezzamento della moneta dovuto a un eccesso di offerta sul mercato rispetto alla domanda. Ecco perché, a volte, si legge che “stampare moneta” porti all’inflazione ma anche questa idea è piuttosto riduttiva perché se è pur vero che l’immissione di liquidità continua sui mercati sia una mossa inflazionistica non è assolutamente detto che tutto questo porti a una crescita generalizzata dei prezzi se la domanda di liquidità, per pagamenti o per investimenti, vada a coprire tutta l’offerta di moneta.

D’altro canto i prezzi potrebbero crescere anche per ragioni esogene come degli eventi di mercato, indipendentemente dalla politica monetaria. Qui sta il punto cruciale nell’individuazione di cosa possa essere inflazione e cosa non lo sia. Rileggendo la definizione si potrebbe dire che tutto si giochi sulle due parole “aumento generalizzato” ma se gli aumenti di mercato andassero a colpire dei beni che influenzino tutta la filiera produttiva e, di conseguenza, anche i prezzi finali, come materie prime, energia o logistica, si potrebbe arrivare a qualche distorsione nell’individuazione del fenomeno ma ci torneremo dopo. In caso di shock inflazionistico quali sono, quindi, le armi a disposizione per riportare la situazione alla normalità? Come intuibile da quanto indicato finora l’unica soluzione è quella di riequilibrare domanda e offerta di moneta, perciò se l’inflazione è dovuta a un eccesso di offerta questa va ridotta e l’unica via è far contrarre il circolante.

Ecco, chiariamo subito un punto il circolante, cioè quello che in economia viene indicato con M3, non è la moneta fisica ma l’insieme di tutti i mezzi di pagamento esistenti, infatti l’emissione di moneta è soprattutto scritturale, quindi potremmo indicarla come virtuale perché esiste solo come riga contabile, e il contante è solo la minima parte di questa. Inoltre M3 viene influenzata direttamente dalle politiche di credito del sistema finanziario che fungono da moltiplicatore ed è per questo che, a latere di una diminuzione dei programmi di acquisto di obbligazioni (il cosiddetto Alleggerimento Quantitativo o Quantitative Easing in inglese) e di rifinanziamento (i vari LTRO o TLTRO che abbiamo visto in questi anni, si arriva all’azione diretta sui tassi di riferimento.

Alzare il livello dei tassi va ad agire direttamente sul moltiplicatore del credito, rendendo più costoso il ricorso ai finanziamenti a vario titolo, che si “verticalizza” andando a contrarre il circolante e, quindi restringendo l’offerta di moneta. Chiaro? Facciamo un esempio. In presenza di tassi bassi un operatore razionale avrà tutta la convenienza a differire i pagamenti o a cercare capitali a credito per investimenti poiché avrà una maggiore utilità nell’aumentare il suo potere di acquisto ovvero prevede di ottenere un ritorno dagli investimenti maggiore del costo del credito, viceversa, alzandosi i tassi, tutto questo non avrà la stessa convenienza e, oltre a richiedere una valutazione migliore riguardo all’accesso a capitali “in prestito”, si ridurrà la domanda generale di nuovi finanziamenti restringendo, così l’offerta finale di moneta. Qui, però, si gioca tutta la partita relativa al contrasto all’inflazione.

Questo perché una politica monetaria restrittiva va automaticamente a ridurre la massa monetaria e a innalzare il costo del credito che, significa che il minor quantitativo di moneta circolante andrà a incidere sulla domanda aggregata riducendola e, contemporaneamente, il maggior costo del credito creerà delle componenti negative di reddito a livello delle famiglie con riducendo la possibilità di accesso ai finanziamenti o elevando gli oneri relativi a quelli in essere se il tasso sia parametrato a quello di riferimento (c.d. “tasso variabile”) e a livello delle aziende rendendo più costosi i finanziamenti commerciali (si pensi solo allo sconto delle fatture o alla gestione dei castelletti salvo buon fine dei crediti in essere) e quelli per investimento.

Da qui alla riduzione di questi ultimi il passo è breve e, uniti alla contrazione della domanda, il tutto va a incidere sensibilmente sulla crescita economica del sistema che, nel peggiore dei casi, finirebbe in recessione, come sembra stia avvenendo in Eurolandia. La recessione, poi, comporta anche un possibile aumento dei tassi di disoccupazione e di ricorso ai sussidi, andando anche a peggiorare le aspettative degli operatori (famiglie e imprese) che ridurranno ancora la loro propensione alla spesa (consumi e investimenti) per convogliare una quota maggiore di risorse verso il risparmio acuendo la crisi di domanda che si tradurrà in un’offerta di beni e servizi in eccesso che, a rigor di logica, dovrà spingere i prezzi verso il basso.

Bene… l’obiettivo della banca centrale, in questo caso, è proprio quello di contrarre la domanda affinché la crescita dei prezzi rallenti fino al valore obiettivo che, per la BCE, è il 2% e, fin qui, sembra che si stia muovendo da manuale. C’è un “ma” da considerare. I maggiori costi legati all’accesso al credito devono essere compensati e, per il principio di traslazione, questi si riverseranno sui prezzi, quindi il primo effetto di una politica monetaria restrittiva sarà un aumento dei prezzi che, poi, divenendo strutturale finirà per non essere più influente nel calcolo della progressione anno su anno che, per definizione, è su base mobile. Questo significa che nel medio termine l’inflazione si fermerà, sicuramente, ma a un livello di prezzo superiore rispetto a quello iniziale che, se non compensato da aumenti reddituali (come, ad esempio, la crescita corrispondente dei salari) finirà per dipingere uno scenario dove il potere di acquisto delle famiglie sarà nettamente inferiore a quello esistente prima dello shock inflattivo con conseguenze di lungo periodo anche sulla crescita. Per questo la mera azione sull’offerta di moneta è, quantomeno, miope e l’operato della BCE rischia di essere più dannoso dell’inflazione che voleva contrastare.

Nessuno può negare, però, che l’epoca dei tassi negativi, iniziata sotto il mandato Draghi a Francoforte e volta a risolvere la crisi deflattiva, quindi di segno opposto a quella indicata oggi, non avrebbe potuto durare per sempre e una normalizzazione della politica monetaria su tassi non negativi era assolutamente auspicabile ma mentre il programma precedente era strutturato su una base pluriennale e mediante strumenti diversi (tassi, QE, operazioni di rifinanziamento mirate) quella messa in campo da Lagarde e dal board della banca centrale è stata fin troppo repentina e manichea, incurante degli effetti recessivi che avrebbe avuto su un’economia che ancora si stava riprendendo dagli anni pandemici segnati da una robusta frenata del PIL continentale e da un innalzamento generalizzato dell’indebitamento, pubblico e privato.

Se a questo si aggiunge che lo shock sui prezzi, come accennato in precedenza, sia derivato da una questione di mercato e non monetaria si descrive perfettamente quale sia la fallacia della politica monetaria intrapresa nell’ultimo anno poiché se i prezzi crescono sui listino mondiali per un aumento della domanda questa non è influenzata direttamente dalla liquidità disponibile in una sola area, per quanto importante come quella europea, e la dinamica di crescita continuerà indipendentemente dalle restrizioni monetarie messe in atto che, al più, potrebbero agire sul cambio valutario ma che, poi, potrebbero, credibilmente, essere vanificate dalla contrazione dell’economia.

Il problema contingente, quindi, viene da una certa sottovalutazione delle dinamiche sui mercati internazionali, uniti a una sorta di arroganza, chiamiamola, “eurocentrista” da parte di Francoforte che, invece di approfittare della situazione per arrivare a una normalizzazione e a una stabilizzazione della politica monetaria ha preferito seguire la via dogmatica di taluni membri del board per riportare i valori dei prezzi nell’intervallo di oscillazione obiettivo. In verità, oggi, il tessuto economico continentale sta reggendo piuttosto bene alla modificazione dello scenario voluta dalla BCE ma per quanto questo durerà? L’ultima “fiammata” dei tassi, in UE e in USA, fu nel 2007 e qualcuno ricorda cosa sia successo subito dopo?