DOVE CI PORTA LA NUOVA COSTITUZIONE

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Il Parlamento ha parlato: con il voto di martedì scorso il ddl Boschi, destinato a modificare la Costituzione, è stato approvato in via definitiva dalla Camera. In autunno (con ogni probabilità a ottobre) gli italiani saranno chiamati a decidere se confermare o meno la nuova carta fondamentale. Interris.it non ha una posizione a riguardo ma ha deciso di aprirsi al confronto con tecnici e addetti ai lavori al fine di informare i cittadini sul testo sottoposto a consultazione. Cominciamo con Saverio Ruperto, docente di diritto civile presso l’università di Roma “La Sapienza” ed ex sottosegretario all’Interno del governo Monti, figlio di Cesare Ruperto, ex presidente della Corte Costituzionale.

Prof. Ruperto negli ultimi anni la Costituzione è stata più volte messa in discussione. Pensa anche lei che l’impianto del ’48 non sia più attuale?
“A mio avviso la Carta del 48 è ancora attualissima in riferimento alla prima parte. Quando si parla di diritti fondamentali e rapporti civili è bene che non ci siano interventi troppo incisivi. Mentre per la parte che riguarda il funzionamento dello Stato l’intervento era più che necessario”.

La novità più grossa è l’abolizione, o meglio, la trasformazione del Senato. Pensa che questo passaggio fosse necessario?
“Sono favorevole a una riforma che vada nel senso della monocameralità. Anzi la si sarebbe potuta rendere ancora più incisiva. Perché un sistema rigidamente bicamerale si giustificava nel ’48 all’indomani del venir meno di un regime autoritario. L’impostazione parlamentaristica era necessaria per garantire la democrazia. A distanza di tanti anni questo sistema si è rivelato un po’ troppo macchinoso rallentando i processi legislativi con evidenti alterazioni. Come, ad esempio, l’eccessivo ricorso alla fiducia”.

La riforma ci mette al passo delle altre grandi democrazie?
“Per certi versi andiamo più avanti di altri Paesi, testimoniando una modernità che era necessaria. Io sarei andato addirittura più in profondità. Avrei pensato a una Camera delle autonomie sostituiva dei consigli regionali. Avrei fatto in modo che questa si riflettesse sul sistema delle Regioni, semplificandolo”.

Con la nuova Costituzione l’immunità sarebbe estesa ai rappresentanti delle regioni che siederebbero in Senato. Considerato che i fenomeni corruttivi vengono individuati soprattutto nelle realtà territoriali le sembra una scelta opportuna?
“E’ una preoccupazione ragionevole che legittimamente viene sollevata. Il problema nasce dal fatto che il nuovo Senato non sarà solo una Camera delle autonomie ma ha conservato anche altri poteri, più vicini a quelli parlamentari. Ciò, in definitiva, giustifica il mantenimento dell’immunità. Se si fosse arrivati a costruire, invece, un Senato delle autonomie allora si sarebbero potute escludere questa prerogative”.

Dai senatori a vita ai 5 quelli nominati per 7 anni dal presidente della Repubblica. Non sarebbe stato più onesto eliminare del tutto questa figura?
“Questa scelta è dipesa dal fatto che nella società moderna tutte le cariche a vita non sono più percepite sul piano sociale come opportune. Si è adottata una soluzione mediana che, però, è ragionevole: lasciare al capo dello Stato la possibilità di nominare questi senatori. Un potere che corrisponde alla scelta dei nostri padri costituenti. Il tempo limitato è finalizzato a non fornire delle rendite di posizione, in modo che non ci sia coincidenza tra la durata della carica elettiva e quella di questi senatori”.

Oggi sta per nascere una Costituzione non condivisa da gran parte dei rappresentanti dei cittadini, diversamente da quanto avvenne nel ’48. Non si poteva usare più prudenza?
“Confrontare esponenti della politica di oggi con quelli di allora non si può. Ogni era esprime i propri rappresentanti, forniti del potere riformatore della Costituzione. Le condizioni di allora, per fortuna, e lo sottolineo, non sono quelle di oggi. Ma fondare su questa supposta diversità e autorevolezza un motivo per contrastare la riforma mi sembra strumentale e anche un po’ infantile. Diventa il solito metodo all’italiana per non fare niente. Anche perché l’idea delle costituenti si è spesso pensata negli anni ma è sempre naufragata. Questa volta si è ricorsi a un metodo diverso che però ha funzionato”.

Con la nuova Costituzione per presentare un ddl di iniziativa parlamentare serviranno non più 50mila ma 150mila firme. Non si rende ancor meno accessibile questo strumento?
“Personalmente avrei fatto mettere addirittura un numero doppio di firme rispetto alle 150 mila previste dalla riforma. Ma avrei semplificato l’iter per arrivare all’approvazione. Una volta che il disegno di legge d’iniziativa popolare, depositato in Parlamento, ha superato i vari controlli, se non viene valutato entro un certo termine o rigettato con delle motivazioni andrebbe essere considerato come approvato. Dovrebbe cioè essere sottoposto al presidente della Repubblica per la promulgazione”.

Ha discusso con suo padre della riforma? Avete le stesse posizioni?
“Spesso ne ho dibattuto con lui, soprattutto in relazione al procedimento di formazione delle leggi. Io sarei stato ancora più spudorato nell’attribuire al governo un potere d’iniziativa legislativa autonoma, onde evitare il pedissequo ricorso alla fiducia. Mio padre è più cauto. Lui condivide la scelta così come è stata fatta. Io avrei osato di più”.