Il Sermig e il Covid, un sogno di giustizia più forte del virus

La pandemia vissuta nell'Arsenale della Pace: "Abbiamo fatto una scelta: quella di restare aperti, ora che c'era più bisogno di noi"

Cinquantasei anni di storia, un’attività incessante a sostegno dei giovani e dei meno fortunati. In una città, Torino, che fu terra di don Bosco e della sua opera. Il Sermig, il Servizio missionario giovani, è nato da un sogno: quello di riuscire a sconfiggere le ingiustizie attraverso opere volte a promuovere e vivere la solidarietà. In ogni circostanza naturalmente. E’ questo lo spirito che da quasi sessant’anni anima questa esperienza, probabilmente unica nel suo genere, un Arsenale della Pace che rivede e declina, al contrario, il significato tradizionalmente attribuito a questa parola, attraverso una mission che coinvolge e che fonda sé stessa su una base di speranza.

Vocazione più forte del virus

Una vocazione che nemmeno il coronavirus è riuscito a fermare: “Quando abbiamo avuto le prime avvisaglie di questa epidemia era la fine di febbraio – ha spiegato a Interris.it Rosanna, educatrice del Sermig -, tramite nostri amici di Lodi. Abbiamo capito la gravità di quanto stesse accadendo e ci siamo preparati un pochino prima rispetto ad altri”. Una necessità su tutte: “Quella di chiudere tutte le attività che comportavano presenza di molta gente: le scuole interne, quelle di musica, dell’infanzia, tutte le attività delle scuole che vengono a fare progetti qui all’Arsenale”. Ma anche una missione che non poteva, proprio ora, fermarsi di colpo. Nemmeno in una situazione di allarme generale, proprio per rispondere a quei dettami che l’hanno da sempre animata: “Ci siamo detti che non potevamo chiudere l’accoglienza alle persone senza casa perché loro non sanno dove andare. Ci siamo impegnati per tenere aperto per chi non poteva ripararsi dal contagio. Abbiamo chiesto agli ospiti se erano d’accordo a chiudersi in casa con noi, prima alle donne e alle mamme, poi anche agli uomini. Perché Torino è diventata città di contagio e ci è stato chiesto di tenere tutti dentro“.

Una riorganizzazione

Il Sermig non si è fermato, rispettando le direttive del governo senza rinunciare alle basi del sogno, alla pietra angolare che ha sempre animato l’Arsenale, riuscendo a sperimentare qualcosa di nuovo: “Una grande convivenza fatta da noi, che abbiamo scelto di stare qui, di tante persone povere che non hanno casa (mamme con bambini, anziani, giovani) e ragazzi che erano a Torino quando c’è stata la chiusura e che sono rimasti con noi: circa duecento persone”. Una situazione in qualche modo nuova, che ha richiesto a educatori e operatori di riorganizzare spazi e attività, creando un luogo di coinvolgimento e interazione, forse addirittura più profondo di quanto già non fosse: “Tuttora siamo in questa fase: ci stiamo preparando all’apertura ma non prima di fine maggio. Per ogni gruppo di persone, donne con bambini, uomini, anziani e giovani, si sono organizzate attività, nonostante non potessimo avere l’apporto solito da parte dei volontari. Ma questo è stato il primo grande servizio: quasi subito ci siamo accorti, soprattutto dalle telefonate, che c’era un’emergenza grande, le famiglie con malati o chi non aveva più sostentamento economico. Così abbiamo iniziato la distribuzione di pacchi alimentari, anche la città di Torino ce l’ha chiesto, soprattutto per l’area di Porta Palazzo. Abbiamo distribuito 40 box al giorno e servito circa 400 famiglie”.

Una scelta di coscienza

Un’esperienza che ha contribuito a rafforzare la vocazione che da sempre anima le attività del Sermig che, in vista della riapertura, è pronto a proseguire con ancora più convinzione nel mettere sé stesso al servizio degli ultimi: “Ho deciso che avremmo tenuto aperto – ha detto il presidente Ernesto Olivero – perché questa è una casa della gente, una casa di Dio e, se per caso chiudiamo, questa povera gente dove va? Tra l’altro sapevamo che c’erano gravi problemi di salute che potevano coinvolgere anche noi ma abbiamo deciso, con umanità, di tenere aperto: nelle nostre case accogliamo ogni giorno più di 1100 persone che hanno questo problema”.