La bocciofila del Pd

Uno strumento, che sia un utensile di lavoro, il mezzo con il quale un atleta interpreta la propria disciplina sportiva o la protesi del musicista, per essere perfettamente aderente ai bisogni di chi lo usa deve essere logoro, usato e conosciuto. Altrimenti si rischia l’approssimazione. In tutti i campi. Ma quando si ottengono risultati per eccesso o per difetto, anche con uno strumento testato, questo non dipende solo dallo strumento, ma anche dalla mano che lo ha manovrato. Insomma, il braccio non è mai disgiunto dalla mente anche se gli elementi non fanno parte della stessa persona. Eppure il Pd a trazione renziana, quello che modella il presente e costruisce il futuro, con le primarie e la scelta dei candidati sindaci ha fatto l’esatto opposto di quanto enunciato e descritto, al punto da aver ottenuto l’effetto contrario. E quello che stupisce maggiormente è che le primarie stanno al Pd come il fornaio alla farina. L’uno è il mezzo dell’altro.

Peccato che stavolta i dem abbiano dato l’impressione di essere una bocciofila alle prese con il torneo sociale e non un partito strutturato che si vanta ancora di essere fortemente radicato sul territorio. Probabilmente lo è. Il problema reale è che l’unica vera grande scissione non è quella con la minoranza dem ma quella fra il centro e la periferia, fra il Nazareno e le sedi locali. Questa scissione non è in atto, è già avvenuta e rischia di trasformarsi in una slavina dagli effetti ancora da calcolare. I tanti casi, da Milano a Napoli, passando per La Spezia e Roma, senza dimenticare i tormenti di Torino o i compromessi vissuti in altre località sono lì a dimostrare che il segretario del partito si è scisso dal presidente del Consiglio, al punto tale che il premier ha preso il sopravvento sull’altro. E questo caso di doppia personalità ha permesso ai potentati locali di tornare ad esser tali, mettendo a nudo la debolezza del Pd.

L’assalto frontale di Bassolino a Napoli, la fronda della sinistra borghese e silente di Milano che non ama Sala e vuole andare per conto proprio, sono le prove tangibili di quanto siano insensibili le terminazioni nervose del Pd rispetto al modello di partito tratteggiato da Renzi. Del resto il caso De Luca aveva già tracciato le coordinate di questo percorso che rischia di far implodere il partito. Per certi aspetti Renzi assomiglia al Gianfranco Fini dei tempi d’oro, quando il leader di An decise di disfarsi del partito perché lo riteneva troppo ingombrante e fastidioso. Renzi, come Fini, non vuole tenere il laccio di chi non risponde ai suoi comandi, meglio pensare ad altro. E l’”altro” è il governo, il potere, il rapporto con l’Europa. E, forte di questa visione, il presidente del Consiglio ha gettato la maschera, dimostrando come certe sfide siano la sua fonte preferita.

Dopo il conclave di Perugia, dove la minoranza dem si è presa una pausa dallo scontro interno, tutti si aspettavano un Renzi conciliante. Invece ha fatto l’esatto contrario chiarendo, se ci fossero dubbi, come ha intenzione di posizionarsi rispetto alle critiche: “E’ un dibattito surreale, do appuntamento a lunedì prossimo in direzione e soprattutto al congresso del 2017”. Altro che ramoscello d’Ulivo, inteso come ex cartello elettorale più volte evocato in questi giorni dai contendenti. La sua è una sfida vera, è la sfida del premier, che in direzione chiederà un voto sulla sua relazione. Ma fino al 2017 non ha intenzione di farsi logorare, puntando invece, secondo l’immagine usata in questi giorni a “dare con le riforme il bacio per risvegliare la Bella Addormentata”, cioè l’Italia. Per capire quanto lunedì prossimo sarà davvero resa dei conti bisognerà vedere se Pier Luigi Bersani e soprattutto Massimo D’Alema riprenderanno l’abitudine di andare alla direzione dem.

L’ex premier, a Treviso, ha messo alcuni puntini sulle i rispetto alla sua posizione: “Non ho mai fatto appello alla scissione, ho solo sollevato una serie di preoccupazioni e problemi politici ed ho avuto risposte in generale sotto forma di insulti e nessuna replica sul merito”. Ancor più netto Bersani. “No, non lascio il Pd, il mio compito è quello di tenere dentro chi è a disagio, chi si disamora” dice l’ex segretario ospite a “DiMartedì”, il programma de La7 condotto da Giovanni Floris. Ma per Bersani, però, “è giunto il momento di chiarirsi su quale è il futuro del centrosinistra, il suo profilo, quali le ricette per l’Italia”. Bersani ha poi detto che “non è vero che c’è bisogno numericamente di Verdini. Con la scusa delle generazioni si è introdotto un virus, ma non è vero che Verdini è più giovane di me…”. E così dalla bocciofila siamo passati alla palestra di scherma. Con le spade sempre più affilate. E un partito che si fa sempre più pesante..