Un’Europa da riformare

L’Unione Europea, ispirata a una visione liberista, che vede nell’intervento dello Stato un’indebita intromissione nel libero scambio e nella libertà d’impresa necessari all’economia, si è strutturata intorno ai concetti di libera circolazione delle merci, dei capitali, delle persone, dei servizi, del lavoro.

La globalizzazione dei mercati aveva fatto crollare i muri e rimossi i fili spinati eretti dopo Yalta, non solo per motivi economici e di sovranità su un territorio. Grazie alla diffusione della tecnologia elettronica e informatica si è realizzato quel “villaggio globale” che il sociologo canadese Marshall McLuhan aveva intravisto e predetto anzitempo. Dopo oltre mezzo secolo dai Trattati di Roma, sono chiaramente emersi i limiti di un estremismo liberista senza controllo. La globalizzazione “non governata” ha prodotto crisi economiche-politiche-sociali diffuse e sconquassi di ordini preesistenti, pur rendendo consapevole, una parte dell’umanità, dell’intimo legame a un comune destino su questo pianeta, per cui l’azione di una parte si ripercuote in modo evidente sulle altre, e le risorse disponibili devono necessariamente essere condivise senza sprechi, in un’ottica di salvaguardia del creato e a beneficio delle generazioni a venire.

È giunta la crisi del 2008, difficilmente inquadrabile in contesti ciclici dell’economia, ma con una genesi ben individuabile nei giochi pericolosi della finanza internazionale, che, con il suo predominio, ha sollevato interrogativi molto seri sul processo di integrazione europeo che va avanti dalla fine della Seconda Guerra mondiale.

I popoli europei – e non i governi, la qual cosa ha prodotto una crisi della rappresentanza e della fiducia nelle politiche nazionali e nelle istituzioni, già compromesse – hanno incominciato a interessarsi al processo d’integrazione e farsi domande sulla vera natura della struttura burocratica messa in piedi a Bruxelles per la costruzione dell’Unione. Il processo decisionale del Consiglio d’Europa è apparso sempre più sbilanciato dal peso degli interessi dei Paesi “forti”, che “più contano”, alterando la formazione delle decisioni in modo da spostarle da un’ottica di “servizio”, in funzione del bene comune dei Popoli dell’Unione. Il Parlamento Europeo, il solo eletto attraverso un processo minimamente democratico, permane marginale e spesso subordinato a una Commissione insediata attraverso “metodi” percepiti come “poco chiari”, che si prestano a quella facile critica verso i membri della Commissione, che sembrano maggiordomi al banchetto delle banche.

Tenuto conto degli effettivi risultati della libera circolazione delle persone e delle merci, i popoli europei si sono anche interrogati circa il grado d’integrazione raggiunto, in molti ritenendo che oggi sia più bassa di quella preesistente negli anni ’80, allorquando si aveva come obbiettivo l’Europa del ‘92.

Interrogativi ancora più seri li ha sollevati l’introduzione dell’euro, la moneta unica adottata dall’Unione Europea senza che si fosse consolidato il processo di unificazione politica In molti Paesi dell’Unione, come anche il nostro, si sono così sviluppati movimenti politici contrari all’euro e a questa Europa, in qualche caso contrari allo stesso ideale di un’Europa Unita. Tali movimenti sono nati dal malcontento dovuto alla diffusa percezione di una sorta di “tradimento” delle impostazioni che i Padri Fondatori dell’Europa – e a questo riguardo riemergono i nomi di tre cattolici: Adenauer, De Gasperi, Schuman – avevano delineato per quell’Europa cui essi anelavano in una prospettiva di bene comune. Insomma, oggi s’invoca “un’Europa dei Popoli e non un’Europa delle banche”, mentre si depreca “una moneta senza Stato, con interi Stati senza moneta”.

Rocco Morelli
direttore scientifico Associazione Ambiente e Società