L’uomo non è il suo errore

ramondaNel 1983 don Oreste Benzi vuole una festa tutta per loro, un riconoscimento del cambiamento avvenuto nella vita di tanti giovani schiavi della droga, che hanno distrutto le relazioni più significative nelle loro famiglie. Ma l’uomo non è il suo errore, deve avere un’opportunità di riscatto. Le decine di comunità terapeutiche sparse in tutto il mondo dall’Italia, all’Argentina, alla Croazia, all’Albania, al Cile, al Brasile ne sono un segno eloquente che ha dato la possibilità in questi 30 anni a migliaia di giovani ragazzi e ragazze di ritornare a essere un dono per la società.

Il 26 dicembre a Rimini anche quest’anno 110 ragazzi ritorneranno alla vita, e nella parrocchia della Resurrezione dove è stato parroco il pastore dalla tonaca lisa, don Oreste, Mons. Giovanni Ercole vescovo di Ascoli Piceno celebrerà l’Eucarestia di ringraziamento con tutte le famiglie in festa. Proprio nell’udienza che la Comunità Papa Giovanni XXIII ha vissuto sabato scorso, papa Francesco ha detto che i nostri racconti parlano di schiavitù e liberazione. Uno dei cammini più belli che sperimentiamo è proprio quello della liberazione dalla schiavitù della droga, ed è bellissimo ogni anno vedere l’abbraccio tra genitori e figli, con la gioia ritrovata.

Quasi 600 ragazzi e ragazze sono entrati nella comunità di don Benzi dal 1 gennaio 2014, molti di loro per dipendenza da eroina e cocaina che rimangono ancora le sostanze stupefacenti più frequentate, anche se è in crescita l’utilizzo di quelle sintetiche sotto forma di pasticche. In aumento anche l’abuso di alcool e di gioco d’azzardo.

Molti di loro finito il programma diventano una risorsa per la società come i quattro ragazzi che hanno avuto accesso al programma “ liberi, sicuri e imparati, mattone su mattone “. E’ la prima volta che dei giovani che sono ancora in programma terapeutico, hanno la possibilità di essere impiegati all’esterno, in un’impresa edile, in un cantiere reale, misurandosi con la realtà del mondo del lavoro. Un’esperienza determinante nel futuro percorso di autonomia.

Diceva una ragazza: “Col bere superavo la timidezza che non ho mai accettato di sentire in me. Avrei voluto essere una persona sicura. L’alcool mi faceva sentire più importante. Dopo ho cominciato a fumare oppiacei con i miei amici. C’era il capo, il più forte, lo volevo conquistare, volevo essere la sua unica. Volevo esagerare sempre, il mio bisogno di relazione era come una fame acuta. Finché non è soddisfatto cerchi altri surrogati: sniffavo, mi bucavo, ma volevo farlo più degli altri. Poi spacciavo. Finalmente la galera che mi ha fermato e mi ha permesso poi di scegliere la comunità”.

I giovani oggi sono terra di nessuno o dei primi occupanti. Dobbiamo dare loro relazioni accoglienti nella famiglia, con una figura paterna presente e una materna accogliente. Costruire gruppi di ragazzi basati sulla solidarietà e condivisione, sull’altruismo e l’essere dono per gli altri. E anche rispondere al bisogno di assoluto, di Dio, di infinito che fintanto non è saziato crea una inquietudine esistenziale che nei soggetti più deboli diventa fuga nelle sostanze.
Ogni persona recuperata è un inno alla vita, un segno di speranza che l’impossibile diventa possibile.