Diciamo la verità…

Ne sentivamo la mancanza. Anzi, eravamo proprio in pensiero: ma com’è che non si parla più del Ponte sullo Stretto? Soldi finiti? Progetti buttati? E invece no. L’idea di realizzare quest’opera faraonica, che sarebbe pure necessaria se a monte e a valle (ovvero in Calabria e in Sicilia) ci fossero le condizioni minime, è riemersa nel dibattito politico come l’araba fenice. Segno che la campagna elettorale è davvero iniziata. A rimetterla al centro dei ragionamenti è stato addirittura il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con la solita abile manovra di distrazione di massa. “Il Ponte sullo Stretto di Messina si farà, ma prima bisogna realizzare e completare opere strategiche per la Sicilia”.

Ecco, appunto. Se ci sono opere definite “stratetiche” dallo stesso premier, il caso dell’acquedotto di Messina che è rotto da settimane e i cittadini sono ormai oltre la crisi di nervi grida vendetta, ancora da completare come si fa a disegnare nell’aria un futuro tanto incerto quanto fuorviante? E davvero il capo del governo pensa al ponte volendo aiutare i siciliani oppure si limita solo a dare una mano al Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, l’alleato di governo sempre più in difficoltà? La seconda ipotesi sembrerebbe prevalere sulla prima. Ma al di là del gioco degli specchi fra vero e verosimile, fra elettorale e funzionale, il tratto distintivo di questo ragionamento è racchiuso nella concezione massmediologica della politica. Prima il messaggio e poi, forse, il contenuto.

Così come è accaduto anche a Roma. Renzi pensa sì alle grandi opere, ma anche alle grandi città; e la capitale è in cima ai suoi obiettivi. E così, anche se oggi non c’è un candidato sindaco spendibile, era importante il messaggio. Mandare via Marino, l’oppositore, l’uomo che non deve chiedere mai, era una condizione fondamentale per far capire a tutti chi comanda sul serio. Per le elezioni si vedrà, traghettate da una figura – quella di Tronca – istituzionale ma non troppo, nel senza che mastica anche di politica e sa rapportarsi con Palazzo Chigi.

Anche nel caso della trattativa fra il governo e le regioni, nonostante vi fosse di mezzo un tema delicato come la sanità, la musica è la stessa. Troppo una defatigante trattativa, con palazzo Chigi determinato monetizzare ogni passo avanti, fra esecutivo e governatori, il Consiglio dei ministri di oggi ha varato il tanto agognato decreto legge definito “salva bilanci” delle Regioni. Il provvedimento “consente di regolarizzare completamente la situazione e alle Regioni di riprendere serenamente la loro operatività”, sottolineano dall’esecutivo. Il nodo da sciogliere riguardava soprattutto il caso legato alla Regione Piemonte e sollevato dal governatore Sergio Chiamparino.

La norma dovrebbe sanare la situazione creatasi dopo una sentenza della Corte costituzionale del giugno scorso che ha bocciato il metodo di contabilizzazione dei fondi anticipati dal governo, attraverso dei mutui contratti col Mef, per pagare i debiti arretrati con i fornitori che in molti casi (in Piemonte per esempio) sono stati usati anche per alimentare la spesa corrente. Alla luce di questa pronuncia, la Corte dei conti nell’udienza di parifica del bilancio 2014, ha così certificato un deficit del Piemonte che sfiora i 6 miliardi di euro mettendo in ginocchio l’amministrazione Chiamparino. Da tempo, il governatore aveva lavorato con Palazzo Chigi per l’approvazione di un decreto che aiutasse a risolvere questa vicenda, nata secondo le Regioni a causa di una scarsa chiarezza sull’applicazione della norma.

Ma il decreto è slittato già due volte. Il provvedimento non contiene fondi a sostegno delle Regioni alle prese con questi piani di rientro dal maxi deficit, ma consente di spalmare in 30 anni l’ammortamento del debito. Oltre alla norma spalma debiti, nel decreto è prevista la possibilità di estendere “i provvedimenti del cosiddetto Decreto Cantone con la norma anti-commissariamento alla sanità, cioè ad aziende accreditate che svolgono servizi essenziali, questo ci consentirà di mantenere i livelli essenziali di assistenza nei territori coinvolti”, ha detto il ministro alla Sanità, Beatrice Lorenzin. In buona sostanza a fronte dei proclami bellicosi lanciati dal premier alla vigilia della trattativa, ci siamo ritrovati a fare i conti con la solita soluzione all’italiana : debiti spalmati sul futuro, come discarica dei problemi.

Esattamente ciò che il premier considerava un male assoluto della politica quando era un rottamatore e non un governatore. Non è cambiato qualcosa, è cambiato tutto. Ecco, nell’arco di questi due anni ci saremmo aspettati un cambio di passo, un nuovo modo di far funzionare il sistema. Invece è come se avessimo fatto un giro completo e fossimo tornati al punto di partenza. Forse non era esattamente questo il cambiamento che avremmo voluto vedere.