PROFUGHI, I DUE VOLTI DELL’ACCOGLIENZA

L’invito del Papa ad aprire parrocchie e monasteri per ospitare almeno un migrante ha provocato uno scossone nelle abuliche coscienze dei cattolici. Si è passati da sincere adesioni, ad applausi di facciata purché siano altri a compiere il gesto caritatevole, all’opposizione dura e pura. Francesco sapeva bene quali numeri andava a solleticare (solo le parrocchie italiane sono circa 26.000) ma forse più che la mera accoglienza il suo intento era mettere i fedeli italiani di fronte alle proprie paure. E così, dal profondo Sud al Nord Italia, alcuni sacerdoti hanno tolto i chiavistelli dalle canoniche e iniziato a chiamare i profughi.

C’è chi si è fermato alla quota “sindacale”, una parrocchia-un rifugiato, e si è messo in pace con la coscienza, chi ha fatto (per ora) finta di nulla; ma c’è anche chi ha provato ad andare oltre, con alterne vicende.

Don Sergio Mattaliano, direttore della Caritas di Palermo e parroco della chiesa San Giovanni Maria Vianney a Falsomiele, una borgata alla periferia della città, non ci ha pensato un attimo. Anzi, per lui che già da tempo aveva deciso di ospitare una quindicina di persone arrivate per lo più da Libia e Sierra Leone (“un anno fa – racconta – abbiamo aperto le porte ai migranti. Anche allora Papa Francesco aveva invitato le parrocchie e le comunità cattoliche a prestare accoglienza; altre realtà cittadine, come la parrocchia di San Tommaso e la parrocchia di don Pino Puglisi a Brancaccio, lo hanno fatto) si è trattato quasi di una benedizione, dell’illuminazione di un percorso di accoglienza che ormai è riuscito nella totale integrazione col tessuto sociale.

Don Lucio Mozzo invece, parroco della Chiesa di Santa Cecilia a Valle e Trissino, nel Vicentino, non si aspettava davvero che la sua apertura provocasse l’ira dei parrocchiani. Una bocciatura arrivata addirittura con un’assemblea pubblica, con tanto di urla e “buuu” come allo stadio. Altro che accoglienza umanitaria. Uno schiaffo alla memoria del piccolo Ayal, il bambino siriano che ha trovato la morte sulle coste della Turchia.

“Per fortuna – racconta don Lucio – ora arriva qualche messaggino di solidarietà, dopo l’appello del Santo Padre. Ma dubito che l’atteggiamento generale cambi”. Non è razzismo, spiegano i residenti al quotidiano Repubblica. “Gli extracomunitari sono qui da vent’anni, ci sono serbi e cinesi, brasiliani e sudamericani. Ci sono bambini di 12 nazionalità, a giocare nel parco. Ma questi stranieri si sono integrati qui con umiltà, non ci sono stati imposti”.

La tensione resta altissima. Gli abitanti sono contrari e hanno promesso battaglia, organizzando una manifestazione davanti la. Don Lucio è preoccupato per il clima di intimidazione che si sta sviluppando, e spera nella capacità di persuasione dei membri dell’Associazione Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, che ha chiesto di utilizzare parte della canonica per ospitare alcuni immigrati in attesa dello status di rifugiato politico. Ma un primo effetto della pressione popolare già si è fatto sentire: si è passati da una prima ipotesi di accogliere 15 o 20 profughi all’ultima di ospitare una sola famiglia.

Don Lucio dice che i paesani hanno paura a causa della cattiva pubblicità che i media fanno sui migranti (la notizia dell’omicidio in Sicilia è ancora nitida nella mente, e la paura è comprensibile). Inoltre la canonica si trova vicino la scuola, e qualcuno ha paura che queste persone possano far del male ai bambini, spaventarli. E poi, dicono i residenti, cosa faranno queste persone tutto il giorno? Chi le manterrà? Chi pagherà le spese?

Oltre al problema della diffidenza poi, ci sono anche quelli burocratici a rendere complicata la fase operativa dopo l’auspicio di Papa Francesco. “Per accogliere i migranti e consentire loro di restare qui – spiega nuovamente don Sergio – c’è’ un complesso iter burocratico da seguire. Serve un coordinamento con la Prefettura, la Questura e le comunità cattoliche. Per me è stato, in certo senso, più semplice, per via del mio duplice ruolo nella Caritas di Palermo, ma non tutte le parrocchie dispongono di psicologi e assistenti sociali, tutte figure necessarie, per le quali io mi appoggio alla Caritas. E’ un percorso complesso”.

Una strada in salita, da qualunque parte la si guardi, anche al netto del grande cuore che in molti hanno dimostrato. Una vicenda la cui soluzione reale non può risiedere solo nell’accoglienza caritatevole ma nell’azione politica di ricostruzione della qualità della vita nei Paesi d’origine.