NEI CAMPI PROFUGHI DEL KURDISTAN SI CONTINUA A BATTEZZARE

Due mamme di un campo profughi situato nella periferia di Erbil, nel Kurdistan iracheno, hanno chiesto a don Geroges Jaholan di poter battezzare i propri figli. “Avete subíto tutto questo perché cristiani. Siete ancora convinti di battezzare i vostri figli, nella consapevolezza che potrebbero patire tutto quello che avete sofferto voi e forse anche di più?”. Alla domanda di don Georges, un sacerdote siro-cattolico della diocesi di Mosul, le due mamme hanno risposto con un sì. Non hanno avuto dubbi, nonostante le persecuzioni subite in dalla furia cieca dello Stato islamico che le ha costrette ad abbandonare le loro case. “Questa gente -racconta don Georges- poteva stare sotto l’Isis, convertirsi, mantenere i propri beni e continuare la propria vita. Non l’ha scelto. Ha preferito lasciare tutto per mantenere la propria identità di cristiano”.
Nei campi profughi curdi, dove vivono migliaia di sfollati e rifugiati cristiani, la testimonianza dei battezzati è molto più forte della paura. Il presule racconta che le chiese che sono state allestite nelle tendopoli sono piene, perché al loro interno la gente si sente al sicuro. “Sono orgogliosi di essere cristiani -racconta il parroco, in procinto di terminare gli studi di Scienze Bibliche in Italia e tornare definitivamente, entro Natale, in Iraq- e non hanno avuto paura di scrivere sulle loro tende frasi come “Gesù è luce nel mondo”, o la lettera “n” in caratteri arabi che significa nazareno. Hanno portato loro via tutto, la terra, le case, tranne la fede.”  Per lo più si tratta di cristiani provenienti da città come Mosul o Qaraqosh, dove la violenza dello stato islamico è stata particolarmente forte.
“La mia città natale, Qaraqosh, i cui fedeli appartengono alla chiesa antiochena cattolica, è sempre stata considerata simbolo della resistenza a programmi governativi sulla demografia mirati a rendere la città abitata da musulmani. È stato il centro cristiano più grande in Iraq, contava 50mila abitanti praticamente tutti cristiani, 30mila originari della città e il resto immigrati durante le guerre, soprattutto dopo il 2003. Si è sempre distinta per aver maturato molte vocazioni, frutto di un clima religioso vivace e di una intensa attività pastorale che torna ora a fiorire anche nelle tendopoli e nei centri di accoglienza”.
I cristiani in Iraq oggi guardano con paura al futuro: “C’è un numero considerevole di famiglie che ha rivolto le spalle al passato per guardare al futuro e ricominciare la vita in un’altra terra nella quale possano trovare quel rispetto e quella dignità che la propria patria non ha saputo loro dare. Non vogliono tornare perché vedono che il Paese è ormai distrutto. Purtroppo questo esodo comporta la perdita della propria identità”. I dati parlano chiaro: se negli anni ’80 in Iraq abitavano oltre un milione e mezzo di cristiani, oggi sono solo 350 mila, circa 1,5% della popolazione. La Piana di Ninive fa parte della zona di demarcazione tra il Kurdistan e il governo centrale di Baghdad, nessuno la difende o la libera senza avere la certezza che venga unita al proprio territorio. Secondo il sacerdote, “I vertici delle chiese in Iraq non osano contestare adeguatamente i governi, per ottenere i diritti dei loro fedeli. Manca nei vertici ecclesiastici il coraggio dei martiri. I cristiani iracheni sono una componente fragile e facile bersaglio per tutte le forze del Paese”.
In queste terre “il cristianesimo si è diffuso nel primo secolo e qui i cristiani parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù”. Nonostante il pericolo della scomparsa, i cristiani perseguitati dell’Iraq non hanno nessuna intenzione di abbandonare la loro fede. “Non c’è motivo per cui un cristiano debba diventare musulmano. Siamo cristiani, Gesù ci ha insegnato a perdonare. La nostra fede e l’appartenenza a Cristo ci ha reso docili nel non rispondere al male con il male”.