COME DISTRUGGERE I SINDACATI

“Le leggi si fanno in Parlamento e se i sindacati vogliono trattare si facciano eleggere”. In queste parole di Matteo Renzi pronunciate qualche tempo fa nel bel mezzo dello scontro sulla Legge di Stabilità, c’è tutta la filosofia dell’attuale governo nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori. Palazzo Chigi li ha sempre snobbati, depotenziando la loro forza, marginalizzandoli, evitando di convocarli. E oggi che Cgil, Cisl e Uil sono nel mirino della grande stampa per gli stipendi d’oro, il colpo sembra essere mortale.

Il sindacato da troppo tempo – secondo l’opinione pubblica – ha abdicato al proprio ruolo, trasformandosi a volte in un comitato d’affari se non addirittura in un para-partito politico. Esagerazioni ci sono state, figlie di un periodo storico in cui tutto sembrava lecito e possibile. Non è questione di sigle, ma di impianto generale, di “sistema” come si usa dire. I sindacati, come la politica, pian piano si sono scollati dalla vita reale, trovandosi spesso a non rappresentare – pur eletti, nei rispettivi ambiti – i propri iscritti. Ma questo non giustifica la minaccia di farli scomparire, perché entrambi costituiscono punti cardine della democrazia.

L’ipotesi del sindacato unico – che sta nella testa del premier – è un dato di fatto. Ma l’idea di Renzi è più ampia, e non colpisce non solo i rappresentati dei lavoratori. Anche Confindustria si è lamentata: “Il governo ha preso di mira i sindacati e anche la nostra associazione – ha detto il presidente degli industriali, Squinzi – come corpi intermedi da eliminare“.

E infatti la teoria governativa è quella di una legge di rappresentanza che inserisca una soglia di sbarramento al 5%: chi rappresenta di meno, all’interno della forza lavoro, non potrà trattare. Così facendo sparirebbero molte piccole organizzazioni. Ma anche le grandi soffrirebbero, perché in tanti settori non raggiungerebbero comunque il quorum.

Non solo, ma resterebbe il diktat di base: “il sindacato – ha detto Renzi – non fa trattative con il governo, che non chiede permesso”. Compito del governo è “parlare e ascoltare, ma forse è arrivato in Italia il momento che ciascuno torni a fare il suo mestiere”. E le leggi “si fanno in Parlamento, non nei tavoli per le trattative” che le organizzazioni devono invece fare con le imprese. Posizioni nette, come ferma è stata la chiusura durante la discussione sulla legge di stabilità, la Buona Scuola, ecc.

Se l’idea di fondo di Renzi può avere una sua logica europea (in Germania il governo nazionale interviene poco nelle contrattazioni e i lavoratori hanno un posto nel Cda, in Inghilterra il premier interviene ancora meno, e la contrattazione si fa a livello aziendale) va anche evidenziato quale pericolo sia insito nell’attentato alle pluralità sindacale. Non solo per la perdita di un pezzo di storia del Paese conquistato con grande fatica nei decenni, ma anche la forte attenuazione delle garanzie di democrazia.

I sindacati dal canto loro però, invece di alzare barricate, dovrebbero ammettere gli sbagli e approfittare di questi avvenimenti come un’opportunità per rifondarsi. Non si tratta di blindare il passato ma di aprirsi al futuro. E la maniera migliore per tutelare i lavoratori e proteggere le conquiste fatte nel tempo è proprio quella di cambiare strategia, tornare alle origini, essere i primi a mettersi “in ascolto”, eliminando quei privilegi che li hanno resi non solo poco credibili, ma addirittura antipatici a gran parte del corpo dei lavoratori. Così facendo, si cancellerebbe lo spettro proposto, quello di un sindacato antidemocratico, e cioè di un sindacato di Stato.