MIGRANTI, IL MISTERO DELLE NAVI MILITARI

L’Europa continua ad assistere silente al processo migratorio che dall’Africa porta nel Vecchio Continente centinaia di migliaia di disperati. Una parte fugge da guerre o regimi dittatoriali, altri lasciano il proprio Paese per motivi economici, altri ancora per tentare di ricongiungersi a familiari che li hanno preceduti nel tempo.

Un flusso che va avanti da tempo e che coinvolge direttamente l’Italia, confine meridionale dell’Europa, impegnata prima con l’operazione Mare Nostrum ed ora sempre in prima linea seppure con il concorso di navi militari di Gran Bretagna, Germania, Islanda, Francia, Norvegia, Paesi Bassi, Spagna Portogallo, Lituania e Malta, autorizzate ad arrivare nelle le acque territoriali libiche nel quadro dell’operazione Triton voluta dalla Ue.

Circa 17 navi battenti diverse bandiere che di fatto proiettano a ridosso della Libia la propria sovranità nazionale, per imbarcare profughi alla deriva nel Mediterraneo e sbarcarli poi nei porti italiani, delegando all’Italia la gestione dell’accoglienza secondo un’interpretazione estrema di quanto previsto dalla Convenzione europea “Dublino III”.

Un Trattato considerato “pietra miliare” nella costruzione del Sistema europeo comune di asilo e che si richiama a principi generali analoghi a quelli della vecchia Convenzione di Dublino del 1990 e di Dublino II. In particolare, ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l’esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sulla nazione che ha svolto il maggior ruolo in relazione all’ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni (COM 2008/820, 03.12.2008, pag. 3).

Sulla base di questi contenuti l’Italia, “avamposto europeo di approdo dei migranti”, deve gestire l’accoglienza, attivare le procedure di riconoscimento, quelle eventuali di rimpatrio, assolvendo compiti non facili delegati dall’Europa con un’interpretazione di Dublino che andrebbe rivista alla luce della realtà contingente in cui si articola Triton. L’Italia fino a oggi è stata lasciata sostanzialmente sola ad affrontare questo problema, uno schiaffo al concetto stesso di Unione europea.

Ma tutto ciò potrebbe cambiare. Un buon numero di profughi arriva infatti sul territorio nazionale dopo essere transitato sulla tolda di navi militari di altri Stati, che secondo il Diritto internazionale e del mare sono a tutti gli effetti parte integrante della Nazione di appartenenza e costituiscono, nella fattispecie, veri e propri “Centri di accoglienza” itineranti che nulla hanno a che fare con il territorio sovrano italiano.

Navi da guerra che mantengono la loro completa identità nazionale ed immunità (sovereign immunit) in alto mare, durante il transito nelle acque territoriali o il soggiorno in quelle interne di un altro Stato con esenzione da fermo, ispezione, tasse e applicazione di leggi straniere. In sintesi una completa immunità dalla giurisdizione di qualsiasi Stato diverso da quello di bandiera (UNCLOS 95 e 96), naviglio anche esentato dall’esporre la “Bandiera di cortesia” una volta che attracca in un porto di una Nazione ospitante.

Forze navali che in navigazione ricoprono un ruolo esclusivo e polivalente esercitando di fatto Diritto, Forza e Diplomazia, come espressione totale dello Stato di appartenenza sia come entità territoriale sia sotto il profilo giuridico. Veri e propri “pezzi” di territorio nazionale proiettati sul mare che come tali dovrebbero essere soggetti alle regole ed alle Convenzioni ratificate dagli Stati Membri dell’Unione Europea, prima fra tutte la Dublino III.

Ciò premesso, non si comprende, quindi, perché le navi militari di altre nazioni europee che concorrono all’operazione Triton non applicano “Dublino” una volta che hanno imbarcato i profughi salvati in mare. La Convenzione, infatti, stabilisce chiaramente l’obbligo della gestione dell’accoglienza legata alla sovranità territoriale estendendola anche alle aree di transito aeroportuale laddove all’articolo 15 Dublino III prevede “la volontà di chiedere la protezione internazionale è manifestata” (e non più “quando la domanda d’asilo è presentata”) nella zona internazionale di transito di un aeroporto di uno Stato membro.

Il naviglio coinvolto in Triton è in larga misura militare e quindi a tutti gli effetti espressione del territorio nazionale di appartenenza. Non è chiaro, quindi, il motivo per cui l’Italia non può dirottare in Germania o in Francia migranti sbarcati in Sicilia, mentre una nave militare francese o tedesca può “scaricare”, invece, sul territorio italiano migranti imbarcati sul proprio naviglio militare “svolgendo il ruolo dominante in relazione all’ingresso e al soggiorno di un richiedente nel territorio degli Stati membri”. Porzione di territorio europeo che nel rispetto degli accordi di Dublino, dovrebbe essere obbligato a dare protezione internazionale agli aventi diritto e nello stesso tempo a procedere al rimpatrio dei “migrati economici” e dei clandestini.

Forse la Ue e l’Alto Rappresentante per la Politica estera europea Federica Mogherini dovrebbero pretendere una più attenta applicazione dei trattati europei ed i mezzi di comunicazione nazionale dare più ampio risalto a queste incongruenze. Per un senso di giustizia, ma anche per non essere presi in giro.