L’ITALIA TRA I MALI E I BENI CULTURALI

Qualche anno fa girava una battuta amara: “Lo sai che il 60% dei beni culturali del mondo è in Italia? ’ ‘E il resto? ’ ‘Il resto è in salvo”. Oggi, purtroppo, la situazione non è cambiata. Anzi. La lista Unesco include 981 siti che formano parte del patrimonio mondiale; il nostro è il Paese che ne possiede il numero maggiore, ben 49, seguita da Spagna, Cina, Francia, Inghilterra e Usa. Oltre 3.400 musei, circa 2.100 aree e parchi archeologici. E poi monumenti, collezioni private. Abbiamo il più alto tasso di concentrazione culturale. Numeri da far venire i brividi.

Eppure non investiamo abbastanza nel comparto, un po’ per distrazione atavica, un po’ per mancanza di fondi. L’approvazione definitiva nell’autunno 2014 da parte del Senato del decreto proposto dal Ministro dei Beni e delle Attività culturali, Dario Franceschini, è stata salutata come una vittoria: introduceva novità significative per il settore, a cominciare dall’ArtBonus, che prevede la deducibilità del 65% delle donazioni devolute per il restauro di beni culturali pubblici, le biblioteche e gli archivi, gli investimenti dei teatri e delle fondazioni lirico sinfoniche.

A ben guardare, è invece la resa dello Stato. In mancanza di fondi, si chiamano i privati a gestire questi tesori, con lo scopo primario di non perderli. Ma va bene così, purché qualcuno ci metta mano, perché per troppi anni la rovina delle… “rovine” è stata una politica distratta e assente. Tra le maggiori innovazioni approvate solo pochi mesi fa le misure per Pompei, la Reggia di Caserta, il recupero delle periferie, le semplificazioni amministrative in campo turistico, le foto libere nei musei, il riesame dei pareri delle soprintendenze, la Capitale italiana della Cultura.

Eppure qualcosa proprio non va. L’ultima brutta figura internazionale fatta proprio a Pompei, con i turisti fermi fuori dai cancelli chiusi (le foto hanno fatto il giro del mondo), deve far riflettere… Il fatto che sia capitata in contemporanea con il blocco dell’Alitalia è stata una coincidenza nefasta. Uno schiaffo all’immagine del Paese.

bonanni_ok“Ho sempre sostenuto nel mio ruolo di sindacalista che lo sciopero è uno strumento ‘estremo’ – spiega a Interris.it l’ex segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, attuale presidente di Italia Più , esattamente come diceva Giovanni Paolo II nella sua Enciclica sul lavoro. Ciò significa che è uno strumento che va usato solo quando proprio non se ne può fare a meno. E comunque il suo utilizzo è il segnale di un fallimento; testimonia infatti lo stop della negoziazione, del confronto, che invece è l’unica strada per fare accordi tra lavoratori e imprese”.

D’altra parte lo sciopero costa ai lavoratori, alle aziende e alla comunità. Ai primi perché si rinuncia a una parte del salario, e di questi tempi non è facile, poi alle seconde perché ne ritarda i programmi sulle commesse, ormai sempre più stringenti in un mercato globale; infine costa al Prodotto interno nazionale perché è uno spreco di tempo e di lavoro che invece potrebbe portare più ricchezza.

“Se uno parte da queste premesse – prosegue Bonanni – è chiaro che non può che arrivare alla conclusione per cui lo sciopero è solo l’ultima spiaggia. Uno strumento estremo, che talvolta però va usato: esistono infatti imprenditori che non rispettano l’ILO (in inglese, International Labour Organization) non rispettano le convenzione europee sui diritti del lavoro, né lo Statuto dei lavoratori italiano, a volte nemmeno il contratto. C’è ancora della schiavitù vera – prosegue – in alcune realtà; attraverso il lavoro nero, approfittando del bisogno. Ci sono ancora sacche – sempre più ridotte, ma esistono – di mancanza di tutela dei diritti anche fondamentali”.

Negli ultimi anni gli scioperi però si sono rarefatti. Circa 15 anni fa si era arrivati a livelli patologici, ma da allora a oggi il fenomeno è crollato, perché? “Si sono asciugate le frange estremistiche e velleitarie all’interno del movimento sindacale italiano – spiega Bonanni – e sono prevalse le realtà responsabili, simili un po’ in tutto l’Occidente”.

Beh, e allora come spiega gli ultimi episodi di cronaca? “In alcuni posti ancora resiste un certo modo di vedere le cose. Io sono rimasto esterrefatto dalla vicenda di Pompei, che non è uno sciopero ma un’interruzione dell’attività che ritengo ingiustificata. Già lo scorso anno, nella mia responsabilità ai vertici del sindacato Cisl, avevo espulso gli stessi che dopo un anno hanno rifatto la stessa cosa, e avevo messo in guardia i lavoratori da simili prese di posizione, che sono lesive della loro dignità e degli interessi generali”.

Poi cos’era accaduto? “Avevo chiesto al ministro dei Beni Culturali Franceschini – racconta ancora Bonanni – di aprire una trattativa sulla vicenda per costruire un codice di comportamento sindacale nelle realtà di servizio al pubblico in modo da assimilarle al mondo dei servizi essenziali, dove l’interruzione non è consentita”.

D’altronde siamo uno dei Paesi più ricchi di cultura al mondo… “Di più. Possediamo circa il 60% per cento dei beni culturali, monumentali e archeologici dell’intero pianeta, E’ la nostra ricchezza, è il nostro petrolio. Chi, mi domando, in Kuwait, Venezuela, Norvegia, Arabia, Iraq si azzarderebbe, nell’indifferenza generale, a saccheggiare o mettere in crisi l’attività estrattiva che rappresenta la loro ricchezza?

Non dimentichiamo – conclude Bonanni – che tutto il comparto è il biglietto da visita dell’intera nazione, gli stranieri vengono da noi e ci conoscono per questo. In questo mondo globale, sporcare questa immagine vuol dire rovinare l’immagine di tutti gli italiani”.