LA BEAT GENERATION DEL DUEMILA

E’ l’estate del 1947 e l’asfalto di New York sembra sciogliersi sotto il rovente sole di luglio. Un giovane dai capelli spettinati e lo sguardo inquieto si dirige alla periferia di Manhattan e dai qui inizia un viaggio senza meta che lo avrebbe portato a toccare quasi tutti i 50 stati.

La strada sarà la sua casa per 7 lunghi anni e quell’avventura appuntata su carta avrebbe fatto di Jack Kerouac il padre della Beat Generation. On the road raggiungerà le tre milioni di copie con traduzione in 25 lingue diventando ben presto la bibbia dei giovani alternativi.

Kerouac, forse senza volerlo diventa l’icona della trasgressione ma qualcosa di lui, soprattutto in Italia venne completamente lasciato all’oscuro e si tratta del suo latente ‘cattolicesimo’. In un’intervista televisiva gli fu chiesto: “Si è detto che la Beat Generation è una generazione che cerca qualcosa. Cosa state cercando? – Jack rispose – “Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto”.

C’è chi nel mondo cattolico potrebbe avere dell’irritazione al pensiero che Jack “l’ ubriacone” possa essere accostato a un santo dalle mani congiunte e la riga di lato come si vede in alcune immaginette. Tra i fan di “On the road” invece si potrebbe scatenare la rivolta per aver fatto del giovane ribelle americano un chierichetto da altare.

Nulla di tutto questo, nessuna etichetta, solo una riflessione profonda su quello che spesso è stato tenuto nascosto. In un’intervista al New York Times alla vigilia della sua morte Kerouac non esita a ribadire le sue scelte: “I’m not a beatnick. I am Catholic”.

Esiste però un’altra Beat Generation, quella di quei giovani del XX secolo che spinti dal bisogno di rispondere alle domande importanti della vita si sono incamminati sulla strada delle beatitudini.
“On the road” sui sentieri impervi del proprio cuore, combattendo la minaccia dell’egoismo con l’amore al prossimo, come il giovane Pier Giorgio Frassati che ha dedicato parte della sua vita ai poveri e ai diseredati lavorando così nel regno di Dio come operatore di pace. Il ragazzo torinese seppure cresciuto nel benessere non si è mai adeguato a quel tipo di esistenza sterile e tra i suoi scritti si legge quanto compreso in quei brevi ma intensi 24 anni: “Vivere senza una fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la Verità, non è vivere, ma vivacchiare”.

Tra i poveri in spirito c’è chi invece come Chiara Luce Badano ha saputo spogliarsi di ogni pretesa sulla sua vita per accogliere un Gesù che si presentava nella malattia. Tenace e volitiva, ha sempre espresso il suo amore per la vita, manifestando una grande passione per lo sport. E’ all’età di 16 anni che durante un partita a tennis avverte i primi dolori lancinanti ad una spalla, segni di un tumore che l’avrebbe in pochi anni consumata. Dalle prime analisi ai suoi ultimi giorni Chiara si è vista pian piano privare dell’autonomia fisica, senza mai perdere il sorriso e la fede, anzi restituendo pace e speranza a chi veniva a trovarla: “Mi piaceva tanto andare in bicicletta e Dio mi ha tolto le gambe, ma mi ha dato le ali”. Un abbandono totale che si traduce in quella frase divenuta celebre: “Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch’io”.

C’è poi chi, come Daniele Badiali, appena ordinato sacerdote a 29 anni parte per il Perù, felice di servire quei poveri tanto amati dal suo Signore. Una fede semplice ma concreta che lo portò la sera del 16 marzo 1997 a donarsi completamente, certo che quella parola del Vangelo di Matteo che spesso aveva ascoltato era vera: “Chi perde la sua vita per causa mia, la troverà”. Di ritorno dalla messa una domenica, la jeep su cui viaggiava con altre persone viene fermata da un uomo armato. La pistola è puntata alla tempia e l’aggressore vuole prendere in ostaggio Rosamaria, una collaboratrice della missione in Perù. Daniele non esita un solo istante e rivolgendosi alla ragazza dice: “Tu rimani, vado io”. Un gesto che gli è costato la vita e che oggi lo vede annoverato tra i servi di Dio, tra coloro che hanno trovato quel tesoro per cui vale la pena vendere tutto. Uno schiaffo alla società moderna e ai suoi stereotipi giovanili improntati sui fragili ideali di successo, benessere e denaro. Così avanza la nuova Beat Generation, non sotto i riflettori del mondo ma silenziosamente, lasciando nella storia tracce indelebili per raggiungere la beatitudine vera.