Ho visto il razzismo

burocrazia e corruzioneHo visto il razzismo in una manifestazione lampante nella sua ingenuità, orgogliosa perché espressa con schiettezza, crudele a motivo della volontà di escludere chi era diverso e far in modo che la propria origine fosse motivo, per gli altri, di scelta e di preferenza.

Un uomo con la pelle olivastra che, semplicemente, teneva al collo, mentre chiedeva l’elemosina tra le macchine al semaforo, un cartello con la scritta “sono italiano”.

Un povero che sentiva di avere un valore aggiunto che lo rendeva se non migliore, quanto meno preferibile agli altri mendicanti, concorrenti degli altri semafori.

E se si comportava così certamente non lo faceva per superbia, non ne avrebbe avuto alcun motivo; l’unico fine era la propria utilità, lo faceva per convenienza, la convenienza a vendere il proprio prodotto mostrandone il lato migliore, promettendo o assicurando, secondo i fondamenti del linguaggio pubblicitario, quelle caratteristiche che rendevano conveniente l’offerta. La pubblicità è una forma di comunicazione complessa, che mira intenzionalmente a influenzare atteggiamenti e comportamenti dei potenziali consumatori. Anche, come in questo caso, in cui al consumatore si suggerisca un comportamento “no profit”, cioè che, almeno in modo diretto non miri a acquistare un bene o un servizio, è necessario un approccio, da parte di chi propone o si propone, fondamentalmente persuasorio.

Da qui “abiti di scena” che quotidianamente vediamo indossati da coloro che mostrano la propria povertà per colpire la sensibilità di chi, alla fine, sentendosi in colpa, elargirà il misero obolo, l’ostinazione che diventa sgradevole petulanza di quanti che, in totale inconsapevolezza, sembrano seguire l’insegnamento evangelico per cui chiedono perché colui al quale è chiesto “si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza”.

E poi ancora il fingere di dare un servizio più dannoso che utile, come l’infinita offerta dei lavavetri, o un bene che non serve a nessuno, una rosa dopo l’altra in ogni momento della serata.

Ora quel mendicante aveva trovato una altra via, la via di offrire la tutela del proprio essere, di più, del proprio concittadino, perché a lui, questo sottintendeva quel cartello, doveva esser data una solidarietà “più solidale”, perché lui è “italiano”. Una vera pubblicità selettiva, che individua il target da raggiungere ed offre al consumatore la soddisfazione di un personale bisogno.

Ma è lui il razzista o è semplicemente il Raffaele della canzone “Venderò” di Eugenio Bennato che “ha girato e conosce la gente e mi dice: stai attento che resti fuori dal gioco se non hai niente da offrire al mercato”.

E chi conosce il mercato sa che tra le regole fondamentali della pubblicità c’è quella che deve esser promossa da una fonte che deve essere sempre identificabile, dando credibilità a quella fonte.

Ed allora il razzista chi è, colui che mendicando offre il proprio prodotto, la soddisfazione del sentimento della pietà di chi offre o dona o di quest’ultimo, che spinge i più deboli a dover comprendere che, in fin dei conti, se proprio non si vuol rimanere ultimi degli ultimi, il fattore “sono italiano” , che altro non significa “premia chi ti è più vicino e diffida della diversità”, soddisfa un bisogno con cui anche i migliori di noi, forse dovrebbero fare seriamente i conti.

Dolersi di questa situazione non serve, né servono affermazioni saccenti e pietistiche su ciò che dovremmo o non dovremmo esser come collettività. Chi ha il potere deve interrogarsi sulle cause che a queste sensibilità hanno portato, forse modificando un sentimento di apertura all’estraneo che è, o forse immaginavamo che fosse, nelle nostre radici culturali.

Ma il potere, la sovranità, come dice il primo articolo della nostra Costituzione, appartiene al popolo, quindi tutti noi abbiamo non solo il diritto, ma il dovere di riflettere su tutto quanto sta accadendo. Discorso complesso che chiama in gioco le mille scelte che la politica quotidianamente fa e che, talvolta e non volendo, creano conflitti sociali che sviluppano lacerazioni difficili da ricucire.