I NUOVI SCHIAVI NEI CAMPI

Sono operai nei cantieri o negli stabilimenti industriali, fanno i badanti o i collaboratori domestici, puliscono gli alberghi e fanno i vucumprà in giro per le città o sulle spiagge, tra sguardi indifferenti o di disprezzo. La maggior parte si spezza la schiena negli orti con vanga e zappa in mano: a coltivare, raccogliere ortaggi nell’arsura estiva e con il freddo. Non conoscono ferie, riposo o gratificazione economica: per ammazzarsi dalla mattina alla sera sono pagati 25-30 euro al giorno. Solo pochi fortunati riescono a strappare un salario più alto, non superiore ai 40 euro. I campi di cotone dell’età moderna si trovano soprattutto nel Mezzogiorno; mancano il negriero, i canti spiritual e lo schiavista con la frusta in mano ma poco ci manca. Perché quello che coinvolge migliaia di immigrati, giunti in Italia con un sogno e finiti nell’inferno dello sfruttamento, non può definirsi lavoro. A raccontare questa triste realtà è il “Rapporto Presidio 2015” presentato dalla Caritas ad Expo con il titolo “Nella terra di nessuno”.

Il resoconto è un grido di dolore per le migliaia di persone comprate e poi costrette alle occupazioni più umilianti per sbancare il lunario. “La mattina ci alzavamo all’alba ed eravamo obbligati ad aspettare che i furgoncini del caporali venissero a prenderci per portarci al campo di lavoro – ha scritto nel libro “Vivi il tuo sogno” Yvan Sagnat, il giovane camerunese divenuto simbolo della rivolta dei braccianti a Nardò nel 2011 -. Un viaggio che ci veniva a costare cinque euro e che non eravamo autorizzati a fare a piedi. Eravamo pagati a cottimo: 3,50 euro per ogni cassone da un quintale di pomodori, e in una giornata di lavoro da circa quindici ore ti potevi anche ritrovare con una paga da meno di venti euro”. Uno schiaffo alle lotte sindacali e ai diritti che i lavoratori, dalla rivoluzione industriale in poi, si sono conquistati fra indicibili sofferenze. “Lavoravamo a ritmi massacranti – prosegue Yvan nel suo racconto – sotto il sole e i quaranta gradi di temperatura delle campagne salentine, ma se ti capitava di sentirti male eri anche costretto a pagarti dieci euro per il trasporto fino al pronto soccorso. In tre giorni di lavoro non ho mai visto un controllo, anche perché i caporali venivano avvisati in anticipo quando dovevano venire gli ispettori di lavoro, così gli irregolari rimanevano alla masseria e tutto sembrava normale”.

Già, i caporali. Sono loro a fare da congiunzione fra servi e padroni. Ce ne sono di diversi tipi: “il caporale lavoratore” svolge le stesse mansioni degli altri ma porta manodopera e per questo ha piccoli benefit; il “tassista” viene pagato per il trasporto giornaliero sui campi agricoli dall’inizio alla fine dei turni; il “venditore” si fa retribuire per portare beni di prima necessità ai lavoratori; “l’aguzzino”, il peggiore, impone a ogni suo sottoposto una tassa; “l’amministratore delegato”, infine, ha un guadagno extra per ogni segmento della filiera del raccolto. Grazie a Yvan, diventato sindacalista della Flai Cgil, e alla sua ribellione oggi in Italia esiste una legge contro il caporalato anche se il fenomeno non è scomparso. In oltre sette casi su dieci chi parte contrae un debito, che dovrà estinguere con il lavoro delle sue braccia: un modo per legarsi indissolubilmente al lavoro nei campi.

I principali Paesi di provenienza dei caporali sono Burkina Faso, Ghana, Tunisia e Marocco. Nel Paese nordafricano, ad esempio, gli operatori segnalano l’esistenza di liste gestite da padroni italiani attraverso le quali si viene “selezionati” per entrare nel decreto flussi. L”iscrizione”, illegale ovviamente, costa tra i 2 e i 3mila euro a dispetto della paga da fame che percepiranno una volta smistati nei campi. La maggior parte dei lavoratori proviene dalle regioni più povere dell’Africa: Burkina Faso, Mali, Ghana, Costa D’Avorio. Paesi socialmente e politicamente instabili, fiaccati da pulizie etniche, regimi totalitari e malattie letali. Ed è proprio la miseria che spinge queste persone a pagare qualunque prezzo pur di andarsene.

Solo 1 su 3 alloggia in case o strutture d’accoglienza, il resto passerà la notte o i pochi momenti di pausa in baracche, casolari abbandonati, tende o addirittura all’addiaccio. E poi per cosa? Per essere sfruttati da capolari e padroni e discriminati da chi li vede girare nelle nostre città. Di documenti nemmeno se ne parla: ai pochi che li hanno vengono sottratti dagli aguzzini, mentre agli altri vengono fatte promesse, mai mantenute, di regolarizzazione o rinnovo. Ma perché non si rivolgono alle forze dell’ordine? La risposta è semplice: paura e ignoranza. Timore di subire ritorsioni personali e mancata conoscenza delle normative sono ostacoli insormontabili che determinano, secondo il rapporto, “bacini di vulnerabilità”. Così accettano di restare nel giro e un domani saranno loro a procacciare nuove braccia da piegare, una volta promossi caporali. Miseria che crea crudeltà. E l’umanità lenta svanisce tra i canti di cicale, sotto il sole che brucia.