Il giorno dell’ipocrisia

Ha ancora senso oggi parlare di “festa” del lavoro? O non sarebbe forse più corretta la definizione di “lutto”? La società moderna, infatti, paga le scelte dissennate fatte negli anni passati. E non solo in termini numerici; per quest’ultimi infatti si potrebbe disquisire sulle disparità di posizioni tra Paese e Paese. L’Italia è in crisi – come ci ha ricordato l’Istat – e anche Spagna e Grecia sono messe male. Non così la Germania, che invece ha un tasso di disoccupati basso. Ma l’ottica con la quale affrontare il problema del lavoro non è questa, bensì quella – ancora attualissima – suggerita da Giovanni Paolo II con la sua enciclica “Laborem Exercens“.

Oltre infatti ai terribili numeri che riguardano le persone licenziate, abbandonate al passare degli anni, ai giovani senza prospettive, va aggiunto il cuore stesso dell’approccio al mondo del lavoro: “L’uomo, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano – scrisse Wojtyla – e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto all’incessante elevazione culturale e morale della società, in cui vive in comunità con i propri fratelli”. L’occupazione dunque non solo come mezzo di sostentamento, ma come elemento che dà dignità alla vita stessa, sia essa personale o di relazione. Una dignità che l’espulsione dal processo produttivo o l’impossibilità di entrarvi polverizza fino ad annullare.

Pericolosa alla stessa stregua è la modalità spersonalizzata, spesso insensibile, a volte violenta, con la quale si costringono le persone all’interno di contratti capestro. Il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro, sottolineava il Santo Padre. Ma la società di oggi ha colpevolmente dimenticato questo principio, inchinata com’è al profitto e strangolata dal terrore della disoccupazione.

Il lavoro o meglio, per usare il linguaggio dell’enciclica, gli “uomini del lavoro” rivendicavano la libertà di associazione, di contrattazione, di sciopero, cioè le libertà negate dal sistema. Una capacità tolta dai regimi totalitari nel periodo appena antecedente a quello in cui scrisse il Pontefice e – ancora più lontano – dallo schiavismo secoli prima; ma negata anche dal capitalismo odierno spinto all’eccesso, dal profitto come unico scopo. Il lavoro, da questo punto di vista, è una chiave, probabilmente quella essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla dal punto di vista del bene dell’uomo.

La dignità del lavoro si misura quindi nella sua dimensione soggettiva e non in quella oggettiva (“il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso”, a prescindere se faccia lo spazzino o il capitano d’industria). Il lavoro non può essere una “merce” che si vende al datore di lavoro; va superata la questione ideologica e legata al mondo operaio, per entrare in una prospettiva sociale. Ne consegue che il lavoro è un bene prima ancora che un diritto o un dovere.

Lo ha ricordato anche Papa Francesco: “Lavoro e dignità della persona camminano di pari passo…  Chi opera nell’economia e nella finanza è sicuramente attratto dal profitto e, se non fa attenzione, si mette a servire il profitto stesso, così diventa schiavo del denaro”.

L’ambiente in cui si opera quotidianamente dovrebbe essere un luogo di evangelizzazione, in cui l’uomo può ritrovarsi ed esprimere la sua stessa vocazione. Ecco, solo quando queste condizioni saranno realizzate, quando cioè il lavoro sarà un mezzo per far crescere la società e non un salario per chiudere i conti a fine mese, quando la distribuzione delle opportunità diventerà equa, quando il dipendente non sarà visto come un ingranaggio al pari di un braccio meccanico, solo allora si potrà tornare a parlare di festa. Farlo oggi è solo ipocrisia.