Come rispondere al Califfato

maurizio_piccirilliGli italiani ora temono l’arrivo dei jihadisti dell’Isis. Se ne sono accorti solo ora perché parlamentari, giornali e televisioni durante quest’ultimo anno sono stati occupati a riferire della piccola politica di casa nostra. Polemiche e liti di condominio alle Camere e nei talk show hanno riempito le prime pagine. Nel frattempo il Califfato faceva proseliti in tutto il mondo. Ma da noi se ne parla solo quando ci sono morti e stragi. Quello è solo la punta dell’iceberg di un’espansione ideologica che sfrutta i nuovi media per fare proselitismo e reclutare nuovi combattenti. Abu Bakr al Baghdad l’autoproclamatosi califfo, a differenza di Osama bin Laden fornisce una proposta concreta, fisica, del revanscismo islamico. Offre una nazione, uno Stato con confini sempre più estesi dove si vive con le regole dell’Islam, quelle interpretate da lui, ma questo basta a trovare consenso tra i giovani scontenti che vivono in Medio Oriente, delusi dalle primavere arabe. Stanchi e repressi da regimi liberticidi e corrotti troppo spesso sostenuti dell’Occidente. Il Califfato trova nuovi sostenitori tra i musulmani che vivono in Europa. Ragazzi emarginati o comunque male inseriti nelle nostra società. Terreno di cultura sono internet e i social network: un’arma sapientemente usata dall’Isis. Bacino di utenza le carceri dove i jihadisti sono anni che fanno proselitismo. Il primo allarme su questo fenomeno arrivò dieci anni fa da Francia e Belgio. Due anni orsono furono gli agenti della polizia penitenziaria italiana a denunciarne il pericolo.

Per troppo tempo abbiamo ignorato quanto avveniva. Ora tutti esperti e pronti ad affilare le armi. Ma la guerra all’Isis non è un affare semplice. La propaganda del Califfato ha ormai convinto, non solo i suoi fedelissimi, ma anche le popolazioni, che l’Occidente si prepara a un nuovo colonialismo. Lo stesso che ha sostenuto i dittatori arabi accusati di jahilliyya, cioè di essere regimi apostati e pagani. L’Isis mostra un modello di società che per molti popoli arabi è sinonimo di stato sociale, uguaglianza. I massacri, le imposizioni alle donne restano ai margini. Del resto in Siria con Assad o nella Libia di Gheddafi la libertà non era certo al primo posto. Certo è che Noi occidentali stiamo sbagliando tutto. Abbiamo supinamente sposato la guerra di Bush a Saddam e ci ritroviamo con l’Isis e i cristiani quasi spariti dal Medio oriente. Abbiamo ripetuto l’errore con la Libia di Gheddafi e ora siamo terrorizzati dall’esodo dei migranti e dall’avanzata dell’Isis. Ma in Libia la situazione è tutt’altro che semplice. Ci sono oltre settanta milizie. Almeno quattro di marca islamista che si combattono tra di loro. Due hanno offerto “bayla”, fedeltà al Califfo Al Baghdadi, le altre sono legate ai Fratelli musulmani e ad Al Qaeda. E il paradosso è questo: l’Isis si oppone anche agli eredi di Bin Laden, ritenuti troppo morbidi e soprattutto poco propensi a costruire un nuovo califfato come nell’Ottavo secolo.

La guerra si vince con le armi, ma in questo caso occorre mettere in campo la cultura, la conoscenza e soprattutto rinunciare a estremismi e demagogia. Se da una parte ci sono i tagliagole dell’Isis è anche vero che ci sono popoli e disperati, come quelli ammassati sulle coste libiche, che da decenni aspettano politiche di sostegno nei loro Paesi contro fame, carestia, malattie e diritti civili. Si deve stigmatizzare l’atteggiamento delle dinastie del Golfo, ambigue e da sempre vicine ai movimenti fondamentalisti. Non si può cominciare un nuovo conflitto in Medio Oriente senza prevedere una strategia di ricostruzione che tenga conto di questi fattori. Eliminare fisicamente le milizie nere non sarà sufficiente se non si darà vita a un nuovo modello di società dove religione e politica convivano senza integralismi reciproci. Dove i diritti civili siano garantiti a tutti. L’Islam deve trovare al suo interno la cura alla deriva jihadista. Bin Laden aveva provato a riformare anche le regole dell’Islam inserendo la jihad nei pilastri della religione. Baghdadi interpreta a modo suo la Sharia stravolgendone le norme coraniche ed esaltando solo quelle che impongono restrizioni. Andare alla guerra è come andare in sala operatoria. Il bisturi è necessario ma poi serve una cura e una lunga convalescenza che va assistita.