Il Giappone piange Kenji Goto e Abe pensa al riarmo

Non poteva rimanere senza impatto l’uccisione del reporter giapponese Kenji Goto Jogo. A parlare è innanzitutto la moglie, che esprime il suo immenso dolore: “anche se la perdita personale non può essere spiegata, rimango estremamente orgogliosa del lavoro di mio marito”. Rinko, è questo il nome della donne, prosegue dicendo che quella del marito “era una passione vera. Voleva sottolineare gli effetti della guerra sulle persone ordinarie, soprattutto i bambini”, e lancia infine un appello ai media di “rispettare la nostra privacy e darci il tempo di scendere a patti con la nostra perdita”.

Ma la morte del giornalista ha scosso il Giappone intero, creando divisioni e alimentando polemiche. Da una parte il primo ministro Shinzo Abe, il quale afferma che quanto accaduto è la “prova una volta di più che la nostra Costituzione è obsoleta”, e rincara la dose sostenendo che “dobbiamo dotarci di strumenti appropriati per rispondere con le armi alle minacce contro i nostri cittadini”. Il Premier nella spinta al riarmo fa riferimento all’art.9 della Carta, che impone al Paese di portare avanti un programma militare solo per scopi di auto-difesa.

Se molti sono i seguaci schierati con Abe, una parte della popolazione ritiene che la morte del giornalista sia da attribuire all’inettitudine dell’esecutivo che non è stato in grado di intervenire in maniera efficace durante il sequestro. Subito dopo la pubblicazione del video con la decapitazione del secondo ostaggio infatti si sono create delle manifestazioni spontanee davanti all’abitazione del premier con cartelli in cui si leggeva “Tutta colpa tua” e “Io non sono Shinzo Abe”.

Polemiche simili anche in Giordania, patria dell’altro ostaggio nelle mani dello Stato islamico. Il tenente dell’aviazione Muath al-Kaseasbeh è prigioniero dallo scorso dicembre, quando il suo jet si è schiantato nel territorio controllato dai terroristi. In cambio il Califfato chiede la liberazione della terrorista irachena Sajida al-Rishawi, e il governo di Amman ha mandato segnali contrastanti sulla richiesta: da una parte dice di essere pronta a liberarla, dall’altra sostiene che “non si tratta” con i fondamentalisti.